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 Il Noce di Caria

 >>====> Caria

IL NOCE DI CARIA

al Palazzo del Quirinale

di Agostino Bagnato

Agostino Bagnato

Giornalista, scrittore e docente universitario

 Tracce della Famiglia Bagnato di Caria

IL NOCE DI CARIA  di Agostino Bagnato

 Ercole Ercoli, Noce di Caria, 2009, olio su tela, cm 50x40, coll. A. Bagnato

UNA NECESSARIA PREMESSA

La mostra Ruritalia.it Agricoltura e lavoro nell’arte del Novecento dal Futurismo a Facebook, tenuta nel 2009 a Roma presso il Complesso dei Dioscuri al Quirinale e successivamente a Tarquinia, in provincia di Viterbo, nello storico Palazzo dei Priori del XIII secolo, ospitava un dipinto raffigurante un grande albero di noce privo di foglie. Un tronco robusto, una impalcatura a tre rami in diagonale, mentre un incredibile intrico di rami e rametti creavano una chioma solenne, monumentale. Un patriarca vegetale, insomma. La didascalia riportava queste informazioni essenziali: Ercole Ercoli quale autore, Il noce di Caria come titolo, 2009 anno di produzione, 50x40 le dimensioni, olio su tela la tecnica.

Caria ? Di che si tratta: una varietà di noce, il nome del proprietario della pianta, la località in cui si trova ? E poi, quell’Ercole Ercoli non poteva essere Palmiro Togliatti che usava quel nome di battaglia al tempo della lotta antifascista e dell’esilio. Non era un pittore e poi è morto nel 1964. Il ricco catalogo non conteneva ulteriori informazioni, limitandosi alla riproduzione di altre opere dello stesso Ercoli, sempre in mostra... E allora ? Molti visitatori si fermavano davanti al dipinto e manifestavano ammirazione, qualcuno chiedeva spiegazioni ma i custodi non erano in grado di dare risposte.

La mostra era stata organizzata in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale) ed era curata da me e da Claudio Crescentini, autorevole storico dell’arte, dirigente della Soprintendenza ai Monumenti del Comune di Roma e aveva il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Regione Lazio.

Perché avevamo inserito quel dipinto, accanto a opere di Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Giacomo Balla, Renato Guttuso, Saro Mirabella, Gianfranco Baruchello, Ennio Calabria, Giosetta Fioroni, Mikhail Koulakov, Salvatore Miglietta, Carlo Levi, Mimmo Rotella, Antonio Corpora e tanti altri grandi maestri del Novecento ?

Dovevo una spiegazione intanto a me stesso.

IL NOCE DI CARIA - foto

Quel noce si trova a Caria dove sono nato nel 1943, località in provincia di Vibo Valentia, esattamente in località Bardarello, su un terreno appartenente alla famiglia Bagnato. Ce ne sono molti altri di noci simili in Calabria e non solo nell’Europa mediterranea, magari più longevi, solenni e severi di quello in questione. Del resto si tratta di una pianta proveniente dalla Mesopotamia e giunta sulle terre bagnate dal mare Mediterraneo circa 30.000 anni fa, elemento inconfondibile del paesaggio agrario di molte regioni e componente della stessa alimentazione delle popolazioni. Infatti la pianta si è acclimatata perfettamente ed è riuscita ad espandersi anche nelle terre fredde.

Il suo legno, dal bel colore ambrato e ricco di venature cangianti, da millenni è utilizzato in falegnameria per costruire mobili, decorazioni, porte. Non c’è ancora oggi abitazione dignitosa che non contenga un mobile in noce massello, magari eredità di famiglia. Altre varietà di noce si sono affacciate in Europa nella falegnameria, da quella note come Tanganika alla varietà California, fino alle essenze dell’America Latina.

Ma il noce "nostrano", come lo chiamano gli addetti ai lavori, è la varietà migliore e la più pregiata per la ricchezza dei colori e delle venature. Un armadio, un tavolo, una cassapanca, una servante di noce mediterraneo è una vera e propria ricchezza, un elemento di distintività.

Perché ho scelto quel dipinto, visto che il noce è pianta comune in Italia ? La ragione di quella scelta risiede nel fatto che a piantare l’albero sono stato io nel lontanissimo 1950, quando avevo sette anni, sotto la guida esperta di mio nonno Agostino, detto "u varijaru", cioè il barilaro.

Mio nonno era un sapiente artigiano, conosceva il legno alla perfezione, fabbricava botti, barili, mastelli, bigonce, ma possedeva una profonda conoscenza della pratica agricola, a cominciare dagli alberi da frutto e dal bosco. In gioventù era stato boscaiolo.

A dipingere quella pianta, diventata nel frattempo un grandioso esemplare di noce mediterraneo, è stato un giovane artista di Vallerano, comune agricolo della provincia di Viterbo. Vallerano è immerso tra boschi di castagno, uliveti, frutteti e vigneti dei Monti Cimini. Ha una storia ricca di avvenimenti legati al territorio conteso tra Papato, Orsini, Ruspoli e Farnese. Per lunghissimi anni è stato feudo Farnese e il suo profilo si trova sugli affreschi del Palazzo della vicina Caprarola, opera di Taddeo e Federico Zuccari.

Ma Vallerano ha un rapporto recente con la Calabria perché vi ha dimorato lungamente Corrado Alvaro (1895–1956) in una grande casa di campagna e nel locale cimitero lo scrittore calabrese ha trovato sepoltura, per sua espressa volontà. Il dipinto è stato eseguito sul cavalletto appartenuto all’autore di Gente in Aspromonte che si dilettava di colori, sollecitato dalla moglie Laura Babini, che era un’abile pittrice.

La mostra era un’occasione importante per mettere in evidenza gli aspetti dell’Italia rurale e della nuova ruralità dopo la fine dell’industrializzazione, la crisi del modello di sviluppo per poli e modelli territoriali, la modernizzazione dell’agricoltura per effetto della politica europea e di nuove visioni produttive, l’internazionalizzazione e la globalizzazione dell’economia. E quale aspetto più suggestivo poteva esprimere quel rigoglioso noce, sopravvissuto ai cambiamenti e alle trasformazioni della famiglia originaria e della stessa società ! Il noce è stato testimone inconsapevole di coltivazioni intensive praticate da mia madre Caterina Naso e che lei ricorda ancora lucidamente dall’alto dei suoi 92 anni: pomodori, peperoni, melanzane, lattughe, cipolle, fagioli, ceci, lenticchie, patate, cereali, granturco. Quella produzione era parte della sussistenza annuale della famiglia. Poi è intervenuta la trasformazione in erbaio e prato-pascolo, fino al definitivo abbandono per il trasferimento dell’intera famiglia a Roma all’inizio degli anni Sessanta. Sono stati eseguiti saltuari lavori di ripulitura durante il periodo estivo per evitare i pericoli d’incendio, qualche semina occasionale, fino a che il pascolo ha preso il sopravvento. Soltanto negli ultimi anni, sulla parcella di terreno su cui stende la lunga ombra il noce fronzuto, le mani esperte di Francesco Rombolà hanno creato un orto rigoglioso, come all’epoca passata, quando mia madre ci chiamava dai giochi e dai compiti scolastici a innaffiare l’orto o a raccogliere qualche erbaggio. Lo stesso noce se ne avvantaggia, naturalmente, perché i frutti vengono raccolti a ogni fine estate. E ne godo anch’io di questa generosità della natura, grazie alla disponibilità di chi coltiva quel terreno che si trova a ridosso delle prime case del paese sul lato nord. Questi, pur essendo un tecnico delle telecomunicazioni, si adopera all’agricoltura con sapienza, esempio illuminante della nuova ruralità, appunto, come sostiene da tanto tempo Corrado Barberis, il principale studioso delle trasformazioni sociali delle campagne italiane che vede nell’apporto degli extra agricoli un contributo importante al fabbisogno alimentare del Paese.

Questa è la ragione per cui Crescentini e io abbiamo collocato quel dipinto di Ercoli nel grande salone del Complesso dei Dioscuri al Quirinale e poi nella Sala Sacchetti del Palazzo dei Priori a Tarquinia. E abbiamo fatto bene, al di là del piccolo narcisismo innocente.

Resta da chiarire come faceva Ercoli, lontano ottocento chilometri da Caria, a sapere di quel noce. Non ci vuole la zingara per capirlo. Sono stato io a chiedergli di dipingere la gloriosa pianta, per fare un omaggio al mio paese d’origine e al mio indimenticabile nonno Agostino, in una occasione così importante come la mostra Ruritalia.it

ERCOLE ERCOLI

Ercole Ercoli è nato a Vallerano, dove vive e lavora in uno studio ricavato in una grande grotta scavata nel peperino. Per raggiungere lo studio, bisogna percorrere una strada che domina una valle; sul fronte opposto, lo scosceso costone di roccia è coperto di castagni, faggi, aceri e acacie, sicché sembra di essere immersi in un paesaggio selvaggio e incontaminato.

Di fatto Vallerano è considerato uno dei comuni meglio conservato sul piano ambientale, grazie alla cultura della natura che prevale tra gli abitanti e per fortuna, anche tra gli amministratori locali.

Il rapporto di Ercoli con il paesaggio, la ruralità e l’agricoltura è strettissimo. La sua produzione artistica è una testimonianza preziosa, ricca di sfumature coloristiche e formali che trasformano la sua sapiente pittura in una lirica solare alla natura. Il bosco resta il soggetto preferito della sua pittura. I grandi tronchi di castagno, contorti per il tempo e le abbondanti potature, talvolta feriti dalle parassitosi, sono una cifra inconfondibile della sua tela.

Il sottobosco poi è un altro aspetto d’intensa poesia: le felci e le foglie creano un magico scenario dove la vita sembra essersi assopita, ma il vibrare dei colori testimonia la vivacità della natura e l’esistenza di un mondo vivente che l’uomo deve rispettare. Anche le sue nature morte sono una festa di colori e di forme; mele, pere, pesche e castagne sono accompagnate da vasellame di uso quotidiano e da tovagliati domestici che simboleggiano lo strettissimo legame che l’uomo deve avere con la natura generosa di tanti frutti. E poi il paesaggio di acque e di piante acquatiche, richiamo del vicino lago di Vico e un po’ più discosto del fiume Tevere che sonnecchia placido nella Valle tiberina. Acque limpide, trasparenti, incontaminate, ora tra rocce biancheggianti ora tra canneti e piante dove nidifica l’alzavola, il germano, l‘anatra selvatica.

Conosco Ercole Ercoli da molti anni e provo ammirazione per la sua produzione artistica. Si tratta di persona disponibile, dotato di una forte carica di umanità e di rispetto per gli altri. Mai una parola di troppo, una maldicenza, un giudizio gratuito. Un uomo positivo, insomma. E un artista sincero.

Ho pensato a lui per celebrare il noce di Caria. Ho chiesto di fare alcune fotografie a Francesco Rombolà che Ercoli ha apprezzato e ha trovato sufficienti per impegnarsi nell’operazione creativa. Così è nata questa piccola grande opera d’arte. Osservandola attentamente si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di già visto, ma uno sguardo più attento scopre rimandi quasi surrealisti in quell’intrico di rami, come se ci fosse una volontà di liberarsi dell’involucro che soffoca la voglia di svettare della pianta come della coscienza umana.

LA NEVICATA DEL ‘56

Ma c’è un altro aspetto che mi lega a quell’albero che ha quasi la mia stessa età. Ha resistito alla terribile nevicata del 1956, l’anno in cui è morto nonno Agostino.

Ricordo quell’evento meteorologico con sofferenza, perché nel gelo durato circa venti giorni, dovevo alzarmi all’alba per raggiungere Tropea, distante circa 7 Km, dove frequentavo  la 3° Media. Tutto era imprigionato nel ghiaccio, seguito alle abbondanti nevicate. Si circolava con il pericolo di scivolare. Gli scarponcini fabbricati dal calzolaio del paese portavano i chiodi di ferro, in dialetto "attacci" dal francese "attache", per durare più nel tempo, per cui bisognava stare molto attenti. La palma che si trovava davanti la porta della bottega del nonno era la più minacciata. Si è salvata perché è stata coperta con canne e sterpaglie. L’acqua gelava nelle tubature e per lavarsi, appena alzati dal letto, veniva sciolta neve gelata in una bacinella messa a scaldare.

Mio nonno Agostino, immobilizzato a letto dalla malattia, ricordava la nevicata del 1929 e io avevo trovato in un cassetto alcune foto di quell’evento, purtroppo andate perdute. Mostravano la casa di via Regina Elena appena costruita e il giardino attorno piantato da poco era una spianata di ghiaccio. Si vedevano le piante di pero e di pesco, il nespolo e tre aranci coperti di bianco.  Ma tutti dicevano che i danni provocati all’agricoltura dalla nevicata del 1956 erano ben più gravi.

La strada provinciale che da Tropea conduce a Vibo Valentia e che non era ancora asfaltata, ospitava numerosi esemplari dei pioppi giganteschi piantati all’inizio dell’Ottocento, dai cui grandi rami scendevano ghiaccioli che talvolta si staccavano per il peso e mettevano a repentaglio l’incolumità dei rari passanti. Nessuno sapeva se a piantare quei pioppi erano stati i Francesi al tempo di Gioacchino Murat o i Borboni subito dopo il ritorno al potere nel 1815.

Ma quei giganti vegetali hanno accompagnato la mia infanzia e la prima giovinezza. Oggi non c’è più traccia di quelle piante sotto la cui ombra ha passeggiato per tanti anni anche Pasquale Galluppi, il grande filosofo kantiano che lasciava Napoli per trascorrere i mesi estivi nella sua residenza di Tropea e di Caria. Il fontanile era ghiacciato e abbeverare gli asini e le mucche era diventato un problema. I contadini si arrangiavano come potevano.

Quando la temperatura tornò ad alzarsi e il ghiaccio a poco a poco si sciolse, si cominciò a contare i danni. Più di ogni altra pianta, aveva sofferto la vite. Poi c’erano gli aranci sparsi negli orti e gli ulivi, grande ricchezza dell’agricoltura locale. Ma per fortuna la natura è riuscita a prendere il sopravvento, aiutata dall’intervento umano. Calcolate potature e concimazioni a base di sterco di vacca, di pecora e di gallina riuscirono a contenere i danni.

La pianticella di noce che avevo messo a dimora, scavando una buca nel terreno e preparando un letto con sterco di gallina "per tenere le radici al caldo", come diceva mio nonno, ha resistito al gelo del 1956, alle intemperie successive e all’incuria del tempo e dell’uomo. Come posso non ricordarmi di quel dono generoso della terra, come posso non amare quella pianta che rappresenta un simbolo della mia esistenza !

Adesso sono sicuro che, grazie al dipinto di Ercole Ercoli, il noce di Caria sopravvivrà a se stesso e alla mia stessa esistenza terrena.

Roma, 5 gennaio 2010

Da sx: Caterina Naso (mia madre), Costantino Bagnato (mio padre), Rosetta Bagnato (mia zia).

Sulla colonnina al centro sono io, Agostino Bagnato all’età di sei mesi circa. Caria, Autunno 1943.

Agostino Bagnato fu Giuseppe (mio nonno), la figlia Rosetta Bagnato e i nipoti Rosaria (sulle gambe del nonno),

Giuseppe Rocco, Francesco, Agostino (sono sempre io) e Maria Rosa, i primi miei 4 fratelli.

Panorama su Caria visto da Sud - Immagine di Pinuccio Naso

 Il Castello Galluppi di Caria - Immagine di Pinuccio Naso

Veduta aerea del centro storico di Caria - Immagine di Pinuccio Naso

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