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 Il Pane di Caria e del Poro

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I Riti del Pane di Caria

di Agostino Bagnato

Premessa

Nel tardo inverno dell’anno 2010 mi sono recato a Montecassino per visitare ancora una volta l’abbazia benedettina.

Ero in compagnia di Fulvio Gressi, profondo conoscitore delle tradizioni contadine e del pittore e scultore Nunzio Bibbò che sta preparando numerose illustrazioni per il mio prossimo libro Abbazie e monasteri nella storia d’Italia. A tavola, nel ristorante aggrappato all’aspro costone della montagna, è nata una piacevole discussione sul pane. Consumavamo un buon pane locale, profumato e fragrante, accanto a una focaccia condita con olio d’oliva e con rosmarino. Ciascuno ricordava il pane della sua infanzia: Fulvio quello di Manciano nel cuore della Maremma toscana, Nunzio quello di Castelvetere nel Sannio beneventano, io quello di Caria nel Poro. Ciascuno glorificava il grano della propria terra d’origine, la pratica della molitura, il lievito e l’impasto, il tipo di forno e la legna per la cottura. Era la riprova che il cibo rappresenta la sintesi della cultura e della tradizione, dell’identità e della civiltà di ciascun territorio.[1]

E’ nata così l’idea di raccontare il modo di fabbricare il pane di Caria, per come lo ricordo dalla mia infanzia e adolescenza. Sono andato a ritroso nel tempo e nella memoria, ho cercato negli angoli più riposti della mente particolari che probabilmente sono importanti per dare ancora più senso a questa operazione di riscoperta dei sapori antichi. Ho così deciso di scrivere questa "memoria", facendo ricorso al mestiere che conosco meglio, quello di scrittore.[2]

Non ho volutamente tenuto conto quanto è stato scritto in precedenza sull’argomento da importanti scrittori calabresi, da Vincenzo Padula a Leonida Repaci, da Corrado Alvaro a Saverio Strati, proprio per dare maggiore corpo alla testimonianza, pur consapevole della parzialità del racconto stesso.[3]

I lettori mi perdoneranno per questo esercizio di vanità.

IL GRANO

La campagna di Caria si stende dall’altopiano di Monte Poro fino a Torre Galli e poi sul sottostante pianoro che si allunga fino alle balze di Brattirò e di Drapia, precipitando sul mare Tirreno da lato nord-ovest verso Parghelia e da quello opposto verso le marine di Formicoli fino a Capo Vaticano.

Terra fertile, fresca, composta da humus rinnovato da sapienti concimazioni naturali per lunghi secoli e praticate ancora oggi in molti poderi. La struttura fisico-chimica del suolo è del tutto particolare, specie a Monte Poro, formata da quelle "pija", cioè limo polverizzato che il vento riesce facilmente a sollevare. E’ il regno del grano, dei fagioli cannellini, dell’erba medica, della sulla.

Un paradiso naturale che rappresenta la vera ricchezza degli agricoltori di Caria, Spilinga, Zungri, Brattirò e altre località. Non a caso si tratta degli antichi casali della città regia di Tropea, città non infeudata al tempo del vicereame e del regno borbonico, per cui i nobili traevano sostentamento e ricchezza per i loro palazzi e per le residenze a Napoli e altrove. La vita di Pasquale Galluppi ne è la riprova storicizzata.

Un’attenta e sapiente coltivazione di quelle terre consente fino a tre raccolti all’anno, soprattutto se si è abili nel praticare una corretta rotazione tra le diverse colture.

  • Il grano in primo luogo, tenero o duro che sia. Terminata la mietitura a luglio, subito un’aratura profonda e una concimazione di stabbio e si dà il via alla coltivazione di

  • fagioli cannellini, lenticchie, ceci. Raccolti i legumi si procede alla nuova aratura e il terreno è destinato ad erbaio.

  • Così dopo la fienagione, si ricomincia con la coltivazione precoce dei fagioli e si conclude con la semina del mais tardivo.

E via di questo passo, a seconda della natura del suolo, dell’esposizione, dell’umidità.

Dopo tre anni, in genere il terreno viene lasciato a riposo, "margio" come si dice in dialetto.

Il terreno veniva arato alla fine dell’estate mediante un aratro a chiodo, fabbricato nelle forge dei paesi vicini e acquistato in genere alla fiera di maggio a Caria o alla festa di S. Cosmo e Damiano a Brattirò nel mese di settembre. Veniva attaccato a un trave che reggeva il giogo al quale erano legati due bovini, il celebre parecchio dell’agricoltura mediterranea. Si trattava in genere di mucche lattifere. L’erpice era di legno: un semplice asse al quale erano conficcati dei cunei appuntiti. Sembrava che il tempo si fosse fermato da millenni. Quella pratica arativa si ritrova nella più antica iconografia, oltre che nella poesia di Esiodo, di Virgilio e nella narrazione di Varrone, Catone e Columella, per citare i più importanti autori classici. I mosaici romanici e le miniature dei codici altomedievali mostrano questa pratica agronomica con chiarezza e dovizia di particolari.[4]

Qualcuno che lavorava per conto terzi, oltre che per se stesso, era dotato di un aratro bivomere dotato di ruote e del regolatore di profondità del solco. Anche questo aratro era trainato da due bovini aggiogati all’apposito legno.

Negli anni Cinquanta giunsero i primi trattori dotati di motore a scoppio, acquistati da alcuni agricoltori con il prestito del piano Fanfani per la meccanizzazione agricola. L’aratro veniva attaccato all’asse posteriore e il versoio azionato dal trattorista mediante un’apposita catena. Si trattava di una vera e propria rivoluzione.

Il grano era seminato a spaglio ancora all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo. La sacca contenente il seme era attaccata al collo e con la mano destra si prendevano i chicchi che venivano sparsi con grande perizia sui solchi, senza mai sbagliare la distanza e la densità del lancio. Un’arte che si apprendeva e si perfezionava con l’esperienza. Raramente si notavano delle fallanze, quando il grane era germogliato. Un tappeto verde uniforme e delicato che il vento accarezzava e il sole scaldava. La neve si faceva vedere di tanto in tanto, ma gli steli resistevano al gelo piegati sotto il manto nevoso. Sono le meraviglie della natura.[5]

La semina del grano sul Poro - Fino agli anni '50

A primavera il grano si alzava con stupefacente rapidità, si accestava e subito dopo compariva la spiga che si andava ingrossando con il passare dei giorni. Il lavoro di diserbo era fatto a mano, come la concimazione a base di azoto, fosforo e potassio per dare forza allo stelo e non farlo piegare e alla spiga a maturare. Quando il grano cominciava a ingiallire, un vento dolce di tarda primavera faceva ondulare le spighe gonfie di chicchi ed era uno spettacolo meraviglioso sentire il fruscio delle piante. Una musica naturale che nessun musicista riuscirà mai a riprodurre. I temporali erano il terrore dell’intera popolazione. Non tanto per il fatto il sé, quanto per il pericolo che la pioggia battente e il vento potessero abbattere il grano e allettarlo. Raramente un campo devastato dalla grandine o dalle piogge battenti avrebbe portato a maturazione il raccolto. Chi non riusciva a mietere interamente il proprio campo, avrebbe avuto serie difficoltà durante l’inverno per la panificazione.

La mietitura era una festa, ma anche e soprattutto una grande fatica.

I contadini si alzavano prima del levar del sole e a piedi o con il carro trainato dalla mucca paziente o a dorso di somaro si recavano in campagna dove bisogna giungere prima che il sole infuocasse l’aria.

Si disponevano le squadre, affrontando il campo schierati su una riga. Ciascuno portava la falce legata sul fianco, quasi dietro la schiena e sul lato opposto custodiva nella cintura dei pantaloni o della gonna il mazzo di sparto per legare i mannelli. La falciatura procedeva alacremente, chinati senza apparente sforzo. Le manciate di grano venivano accumulate a terra e poi legate con sparto, dando vita ai mannelli. A loro volta i mannelli venivano legati in biche, chiamate anche "gregne". Per avere disponibile il materiale con cui legare le biche, venivano seminati chicchi di grano saraceno, molto più resistente rispetto al normale frumento. Quando si mieteva, gli steli di grano saraceno venivano tagliati a parte e custoditi con cura.

Le biche erano poste in piedi, pronte per essere raccolte al termine della giornata e caricate sul carro e trasportate sull’aia. Molti contadini usavano fare i covoni direttamente sul campo, riponendo le biche con le cime all’interno, per proteggere le spighe dalla eventuale pioggia estiva.

Attorno alle otto del mattino il lavoro si fermava per consentire a tutti di consumare una ricca colazione, in genere a base di salumi e di insalate. Non mancava il pane cotto nel forno a legna, fragrante quando era ancora fresco, ma sempre profumato anche se cotto una settimana prima. E poi c’era il pane biscotto, da mangiare magari appena bagnato con l’acqua. Dalla pagnotta, chiamata "pitta", venivano tagliate grandi fette su cui si spalmava la " 'nduja" per aprire lo stomaco. Si tratta della speciale salsiccia preparata con carne di maiale tritata unitamente al peperoncino, insaccata nel budello grasso del maiale. Si tratta di una salsiccia piccantissima, divenuta famosa negli ultimi anni anche fuori dalla Calabria. Ma non c’era bisogno dell’antipasto, perché le prime ore di mietitura avevano fatto venire un grande appetito.

I contadini chiamavano questa interruzione per consumare quei cibi "u murzeju", dallo spagnolo almuerzo che vuol dire proprio colazione. L’etimologia deriva dal sostantivo  latino admordium, a sua volta derivato dal verbo admordere, da cui anche mordisco, mordere.

L’assenza di alberi, caratteristica del Poro, obbligava a rifugiarsi sotto il carro oppore al riparo di un telone che veniva steso con dei paletti. "U murzeju" era l’occasione per fare i propri bisogni corporali, in genere nei fossi vicini. Ma era anche il momento giusto per i più giovani d’intrecciare qualche sguardo che poteva sfociare in relazioni amorose.

Il lavoro riprendeva con maggiore lena sotto il sole cocente. Gli steli recisi del grano, le terribili stoppie, graffiavano e ferivano le gambe dei ragazzi in pantaloni corti e le donne che allora portavano lunghe vesti colorate. L’acqua era disponibile prevalentemente per bere e abbeverare gli animali al seguito, ma qualche volta il bruciore era così forte che non si resisteva e si bagnavano le gambe, attingendo l’acqua dalla brocca di coccio, il celebre "bumbuleju" con i due manici. I più fortunati avevano dei barilotti di legno, magari costruiti da mio nonno Agostino "u Varijaru".

Attorno a mezzogiorno giungeva il pranzo vero e proprio, portato da casa da una delle donne rimaste al focolare. Era un momento davvero solenne: la grande tovaglia colorata veniva stesa per terra e vi si posavano i piatti fumanti di pasta asciutta, pollo arrosto, carne di maiale salata, i contorni a base di peperoni arrosto, insalate miste a base di patate lesse, pomodori, peperoni, cipolle, uova bollite, cetrioli.

La cultura culinaria greca e turca si faceva sentire, lascito di antiche culture. Non poteva mancare il piatto di fagioli lessi nell’apposita pignatta e versati al momento, condendoli con olio d’oliva. Non difettavano la "'nduja", la soppressata e il formaggio. E soprattutto non poteva essere assente il vino. Non si trattava di un grande vino, perché non si riusciva a conservarlo a lungo. Lo si allungava con l’acqua per ridurre il sapore di aceto, di spunto come dicevano i contadini, a malincuore.

Com’è noto, gli abitanti di Caria chiamano ancora oggi i fagioli con il termine "suriaca" o "suijaca", lontana derivazione dell’arabo al "surijakat", mentre la parola "'nduja" discende dal francese "andouille", salsiccia piccante. Questo miscuglio di parole è la dimostrazione del passaggio di culture dovute alle varie dominazioni che si sono succedute nel corso dei secoli.

La parola "gebbia", dall’arabo "gibbia", vasca per irrigare, è ancora una volta testimonianza di questa lontana realtà storica. Lo stesso vale per pane, chiamato comunemente "pitta", dal greco "pitta"che vuol dire pane, appunto.[6]  Da qui è nato il termine pizza, noto in tutto il mondo per indicare un piatto tipico della tradizione napoletana, ma che è anche l’equivalente della focaccia.

Si riprendeva a mietere, perché il campo doveva essere ultimato nella giornata. Si passava poi a raccogliere le biche, caricate sul carro oppure riposte come covoni. Quando il sole cominciava a scendere verso il mare, spatolando l’orizzonte d’amaranto, di bagliori rosso fuoco, di fiamme arancione violento, si aggiogava la mucca al carro e si tornava al paese. Qualcuno aveva ancora le forze di cantare, ma i più ciondolavano per la stanchezza e il sonno.

Il giorno dopo sarebbe stata la stessa scena e così fino al termine della mietitura in tutte le parcelle di ciascuno possedeva al Poro, a Giammoro, ai Petti, a Riace, Saracinò e altre località.

Quanti pittori si sono prodigati a raccontare la mietitura, a descrivere la fatica dei mietitori, a imprimere nell’occhio e nell’animo degli osservatori la gioia per il raccolto o la stanchezza di una giornata trascorsa piegati sulle spighe, ma nessuno riuscirà mai a trasmettere la felicità di coloro che hanno partecipato a questo rito, oramai desueto e abbandonato per l’insorgere della meccanizzazione agricola più avanzata. L’arrivo della mietitrebbiatrice ha risparmiato fatica e tempo agli agricoltori, ma ha sottratto loro la poesia infinita del gesto ripetuto migliaia di volte e tuttavia sempre diverso per la varietà della pianta che si stava recidendo.

LA TREBBIATURA

Prima che giungesse la trebbia azionata dal motore a scoppio, la battitura delle biche era un’altra fatica impervia. Sull’aia le spighe venivano battute dai contadini con un bastone alla cui cima era legato con una correggia di cuoio  un altro pezzo di legno, più corto, snodato. Cominciava subito dopo la spulatura, praticata con la pala e poi con il crivello. Raccolto il grano nei sacchi, si ricominciava. Era una pratica che richiedeva molti giorni.

Poi è arrivata la trebbia, il mostro di legno e ferro che ingoiava le biche e le triturava nel suo stomaco metallico, restituendo dalla bocchette posteriori o laterali, a seconda del modello, i chicchi di grano. La pula cadeva per terra e veniva in genere dispersa, mentre gli steli triturati in paglia, venivano raccolti accuratamente. La paglia era componente fondamentale per la vita degli animali, da cui sarebbe nato poi lo stabbio, il concime naturale che faceva e continua a fare la ricchezza di quella terra.

Le prime trebbiatrici era azionate da un trattore che funzionava con il vapore prodotto da una caldaia riscaldata con il fuoco della legna. I pericoli d’incendio erano enormi. Poi giunse il motore a scoppio. Il grande mostro di acciaio e legno divenne una costante per l’intero periodo estivo delle campagne di tutto il bacino del Mediterraneo.

La Trebbiatura - Fino agli anni '60

L'attività della Trebbiatura

A Caria la trebbiatrice era stata acquistata da una sola persona o da un gruppo di agricoltori che avevano costituito una società di fatto. Il colore della trebbia era rosso fuoco, simbolo della fertilità, della ricchezza e della felicità, oltre che della passione. Il piano di lavorazione veniva preparato in base alle prenotazioni dei contadini, studiando un percorso che portava la macchina ogni giorno su un’aia diversa. I trebbiatori venivano scelti con cura, perché dovevano essere uomini robusti e pratici, resistenti alla fatica e al sole rovente dell’estate calabrese, ed alla polvere continua.

In genere si cominciava a trebbiare sulle aie in prossimità del Poro dove era più probabile che si sarebbe potuto verificare un improvviso temporale estivo. Poi si scendeva gradualmente, sempre tenendo conto delle richieste e si finiva sulle masserie di Brattirò e di Gasponi. Qualche volta il percorso era al contrario. Non era previsto nessun giorno di festa. Bisognava fare presto, proprio per evitare il pericolo di piogge.

Il trattore veniva posizionato in un angolo dell’aia, dopo aver sistemato la trebbia al centro, il più vicino possibile ai covoni del grano. La lunga cinghia di cuoio incrociato azionava il meccanismo della trebbiatura. Le biche venivano riposte ai lati e due uomini le sollevavano con il tridente all’altezza della bocca, dove un trebbiatore per parte le afferrava con una mano e le indirizzava con le spighe all’ingiù nel vano apposito, tagliando velocemente con la falce il legaccio. Era un gesto ripetuto migliaia di volte in un giorno. Il sudore si mischiava alla polvere e alla pula. I trebbiatori dopo qualche ora erano irriconoscibili. Soltanto gli occhi rilucevano.

La paglia veniva accatastata attorno a un palo per dare vita ai celebri pagliai a forma conica che sono stati per secoli un elemento inconfondibile del paesaggio agrario italiano. Ancora oggi in qualche sperduta zona è possibile vedere questi cumuli conici di paglia, ma le comparsa delle presse ha sostituito completamente questa pratica.

La trebbiatura terminava in un giorno. Non si interrompeva per il murzeju, ma nel tardo pomeriggio, finite le operazioni, ci si riuniva attorno a una grande tavola per la vera festa di ringraziamento alla divinità. Una festa del raccolto a metà strada tra la liturgia sacra per esprimere gratitudine al Signore e il rito pagano dedicato alla dea Demetra.

Si cominciava in generale con la pasta asciutta, i filej con il ragù, ovvero  la farina impastata con acqua e stesa in lunghe file che venivano tagliate e attorcigliate preferibilmente con lo stelo dello sparto,'u gutimu. Si proseguiva con il pollo arrosto e moltissimi contorni che davano il senso del benessere e della ricchezza della casa. Per l’occasione si lasciava la nduja migliore, quella conservata nel budello grasso del maiale. L’impasto di carne di maiale tritata con il peperoncino mandava un profumo straordinario e la goccia di grasso che colava era la prova della sua straordinaria bontà.

I Filej col ragù  (Pasta fatta a mano)

Fecero la loro comparsa anche le prime falciatrici dell’erba e del grano. A poco a poco scomparvero le scene della mietitura a mano e un intero mondo si avviava al definitivo tramonto.

Qualche anno dopo comparve la mietitrebbiatrice. Era un vero e proprio miracolo vedere passare quella grande macchina sui piccoli campi. Il rombo del motore a scoppio si mischiava al battito della pressa per la paglia. La civiltà delle macchine era entrata pienamente nelle campagne di Caria. Il merito era di alcuni agricoltori che avevano rischiato quell’impresa. Nessuno ha mai voluto costituire una cooperativa agricola per dotare le campagne di un parco macchine comune, come nella maggior parte del resto d’Italia. Certamente il mostro d’acciaio  ha enormemente ridotto la fatica, nonostante tutto, ma ha tolto la poesia della trebbiatura tradizionale, tramandata dalla pittura del XX secolo e dal cinema. Vale per tutti la memorabile scena delle trebbiatura nel film Novecento. II parte, di Bernardo Bertolucci, anche se è riferita alla campagna emiliana.[7]

L’individualismo contadino raggiungeva forme parossistiche. Neanche per la molitura delle olive si è mai riusciti a formare una cooperativa, tanto che ancora oggi non esiste un frantoio sociale. Le uniche cooperative agricole del Poro si trovano a Rombiolo, dovute all’iniziativa dei comunisti locali, per molto tempo predominante in quella zona.

LA MACINAZIONE

Prima che Domenico Naso impiantasse il mulino elettrico attorno alla metà degli anni Cinquanta, la macinazione avveniva nel mulino ad acqua in località Fiumara. A dire il vero c’era anche altri mulini nella zona, ma quello più frequentato era appunto quello lungo il torrente che separa Caria da Spilinga. Si tratta di una fenditura nella dalle pareti quasi a perpendicolo, scavata nel corso dei millenni dall’acqua che sorge dal Poro e finisce al mare di Formicoli.

Il mulino era custodito da un brav’uomo che tutti rispettavano per la sua bravura e soprattutto per la sua onestà. Le leggende sul furto di farina si rincorrevano e chi andava al mulino era particolarmente accorto perché venisse macinato il proprio grano e non quello di altri e che la farina fosse quella  ricavata da quel grano.

Il mulino era una semplice costruzione in pietra con una grande ruota azionata dall’acqua che metteva in movimento la grande piastra rotonda di granito scalpellinata finemente in modo da triturare i chicchi nella maniera più  sottile possibile. Si trattava di risparmiare anche sulla crusca, evitando che una macinazione troppo grezza producesse più crusca.

Una volta raccolta la farina nel sacco, iniziava il trasporto con l’asino lungo il sentiero che portava al paese. Si trattava di una strada costruita negli anni Trenta dal marchese Giuseppe Toraldo, proprietario delle terre sul greto della fiumara. Fattore era a quel tempo Agostino Bagnato "u Varijaru" che aveva saputo trasformare quelle coste pietrose in un giardino stupefacente di agrumi, alberi da frutto e olivi. Ancora alla fine degli anni Cinquanta era possibile raccogliere qualche arancia sulle piante oramai abbandonate. Chi non possedeva il somaro, trasportava i sacchi a spalla, mentre le donne arrancavano con il fardello in bilico sulla testa. Il cercine attutiva i contraccolpi dei passi, ma era pur sempre una grande fatica trasportare l’ingente peso. Anche se prezioso, era pur sempre pesante.

Impastare il pane era arte comune. Erano le donne preposte a questo impegno, faticoso e delicato. Il primo compito era sciogliere il lievito naturale, tramandato da un impasto all’altro. In genere era conservato in una scodellina di coccio smaltato, in luogo asciutto e al buio. Qualcuno faceva il pane senza lievito, "azimo" come veniva detto, alla maniera ebraica, come se fosse una grande focaccia. Ma non era considerato una specialità.

La ricchezza di Caria era il pane preparato con farina macinata con la pietra, lievito naturale, sale grosso, acqua poco ricca di calcare. Non esisteva competizione tra le famiglie, perché la cultura del pane era ed è ancora oggi, per fortuna, comune a tutti gli abitanti dell’antico casale della città regia di Tropea dove trascorreva i mesi estivi il filosofo Pasquale Galluppi.

Preparata la farina nella madia, cominciava il lavoro di impasto usando acqua in piccole quantità; si aggiungeva il sale con molta attenzione, in piccole dosi; si lavorava la pasta amalgamando la farina in modo costante e uniforme. Non bisognava mai fermarsi con i pugni chiusi a lavorare l’impasto vischioso, fino a quando la massa era divenuta compatta e omogenea.

Trascorso qualche minuto per consentire al lievito di sedimentare nella massa pastosa, veniva separato un pezzo di impasto e riposto con cura nella stessa scodellina del lievito: era il nuovo lievito che sarebbe servito per la panificazione successiva. E così ogni volta, rinnovando il rito. Subito dopo iniziava la fabbricazione delle pagnotte rotonde che venivano riposte su apposite tavole cosparse da un leggero velo di farina per consentire che non si attaccassero al legno. Le pagnotte dovevano riposare qualche tempo, prima di essere infornate per permettere alla pasta di lievitare in modo giusto. Per evitare che mosche e altri insetti potessero posarsi sulle pagnotte, veniva steso un telo di lino, fresco di bucato, a coprirle interamente.

Accanto alle pagnotte rotonde veniva modellata una pasta sotto forma rettangolare, intaccata in superficie per permettere il taglio successivo alla cottura. Era il pane che sarebbe diventato biscotto.

A questo punto il pane era pronto per essere infornato.

IL FORNO A LEGNA

Il mulino elettrico di Domenico Naso all’inizio degli anni Sessanta si trasformò in forno elettrico. Molti ne approfittarono per cuocere il proprio pane, ma l’uso del forno a legna privato rimase una costante nella panificazione delle famiglie di Caria, sia di quelle dedite all’agricoltura che delle altre che nel frattempo venivano sempre più ampliandosi. Successivamente Mario Naso, il figlio minore di Domenico "u geometra", trasformò l’impianto in un vero e proprio panificio, sforzandosi di mantenere la tradizione della qualità, nonostante la tipologia industriale della lavorazione. In seguito alla sua prematura scomparsa, il panificio ha subito delle trasformazioni.

Il forno che ciascuno possedeva si trovava in genere dietro casa, costruito con mattoni refrattari di argilla, di forma rotonda, a semivolta e con la bocca rettangolare. Qualcuno dava forma semicircolare alla bocca, più per ragioni estetiche che pratiche, anche se gli anziani muratori sostenevano che in quel modo si disperdeva meno calore. Probabilmente avevano ragione loro. L’ampiezza del forno era legata alla consistenza della famiglia. Ma la panificazione riguardava una certa quantità di pagnotte per evitare che si dovesse fare il pane frequentemente. In genere la panificazione avveniva ogni settimana, al massimo ogni dieci giorni.

Accendere la legna nel forno era il compito più impegnativo della panificazione. Non tanto per l’operazione i sé, quanto per la scelta della legna che si doveva impiegare. Questo aspetto era legato alla qualità dei terreni posseduti, in quanto molti ricavavano la legna dalla potatura delle piante e della vigna, oltre che tagliando il sottobosco dei terreni boschivi. Molti altri facevano ricorso alle terre del demanio comunale, in genere chiamate “custeri”, ovvero coste infertili delle colline coperte da erica, lentisco, olivastro e soprattutto corbezzolo.

       

Dotarsi della legna necessaria era compito importantissimo nel periodo estivo; tuttavia, anche d’inverno non era improbabile trovare donne, magari accompagnate da ragazzi, a fare legna. Era un lavoro faticoso e anche rischioso, perché tagliare con accette e roncole gli arbusti in aree scoscese e anche friabili comportava spesso la perdita dell’equilibrio. La legna veniva raccolta in fascine e trasportata nelle abitazioni in paese legata al basto dei somari. Era molto frequente vedere donne trasportare le fascine sulla testa e qualche uomo sulle spalle.

Le frasche erano destinate al forno, i tronchi e i rami più solidi al camino e alla cottura quotidiana dei cibi. Quest’ultimo aspetto si verificò fino a quando non arrivarono le cucine a gas, le celebri cucine economiche dei primi anni della ricostruzione postbellica e del successivo miracolo economico. Le bombole, Butangas, Pibigas, Liquigas e altre varietà, erano vendute nei due unici negozi del paese. Non si sono mai verificati incidenti al riguardo.

La legna veniva infilata nel forno e accesa con paglia e fogliame secco. Iniziava lo sfrigolio della fiamma e le frasche prendevano fuoco rapidamente. Molto spesso la legna era verde e bruciando produceva un fumo denso che usciva dalla bocca, unitamente alle fiamme. La brace che si formava era la condizione fondamentale per la panificazione. Serviva per mantenere l’antro a temperatura costante. Quando il forno era pronto, le tavole con le pagnotte venivano portate sulla piccola spianata e la sottile pala di legno, azionata con grande perizia e rapidità dalle donne in particolare, prendeva una pagnotta dopo l’altra e la riponeva con cura all’interno del vano, evitando che si toccassero tra di loro e che fossero troppo vicine alla brace sparsa sul fondo. Il coperchio veniva sigillato con stracci per evitare la dispersione del calore. In questo modo gli aromi sprigionati dalla legna venivano assorbiti dalla pasta farinosa. Quando il forno veniva aperto, una fragranza di odori e di profumi si sprigionava dalla bocca, da restare veramente inebriati.

Le pagnotte venivano conservate ancora calde nella madia, mentre il filone veniva tagliato e riposto nuovamente nel forno che, nel frattempo si era raffreddato. I tozzi di pane s’indurivano lentamente, perdendo del tutto l’umidità residua e divenendo veri e propri biscotti. Venivano tolti dal forno verso sera, conservati nelle ceste di vimini e consumati nel corso di più settimane, mentre il pane successivo sarebbe stato fabbricato e cotto dopo circa dieci giorni. In effetti, la tecnica di fare il pane in maniera naturale consentiva una conservazione relativamente lunga, senza indurire in maniera eccessiva. Il segreto era il lievito naturale da un lato e la tecnica di cottura dall’altra.

La tradizione di scambiare le pagnotte tra parenti e amici consentiva anche di godere di pane fresco, in quanto si infornava a giorni sfalsati, proprio per mantenere in vita questa ingenua e saggia cultura.

La festa cominciava subito. Mordere la pagnotta appena sfornata procurava una sensazione di piacere e di soddisfazione veramente straordinari. Erano in particolare i ragazzi ad affrettarsi sul pane appena sfornato. Quel pane immerso poi nei fagioli cannellini cotti nella pignatta e quasi ricoperti di olio d’oliva acquistava una fragranza e un profumo maggiore. Nel periodo della frangitura delle olive era il pane biscottato a farla da padrone: veniva immerso nel recipiente dove si depositava l’olio appena raccolto con il piatto concavo e mangiato a morsi veloci; masticando avidamente si produceva quel caratteristico rumore di sgranatura che rappresenta una vera festa per il palato.

CONCLUSIONE

Non è possibile descrivere tutti i modi con cui si consuma ancora oggi il pane di Caria, cotto secondo quelle tecnica descritta in precedenza. E’ un atto di amore per la propria terra e per la cultura millenaria delle popolazioni mediterranee che è sedimentata in ogni angolo di quel meraviglioso territorio che è il Poro, la Calabria e tutta l’aria della “Megale Hellas”, la “Magna Graecia” dei Romani.

Ricordare questa cultura e rievocare quel sapere costituiscono dichiarazioni di amore per i luoghi che hanno dato sostanza ai sogni e che rendono la vita degna di essere vissuta, nonostante in tempi incerti della contemporaneità. Quante emozioni producono le rievocazioni di un tempo non troppo lontanno ! Perché perderle, visto che le trasformazioni della società tendono a cancellare questo passato ? Alla base di questa considerazione non c’è nessuna nostalgia, perché il lavoro agricolo è stato durissimo per millenni, sia nella condizione schiavistica della dominazione greco-romana e medievale che quello del villicus e del dominus affrancato e libero. La rivoluzione industriale e lo sviluppo tecnologico hanno alleviato il lavoro dei campi e migliorato le condizioni di vita dei contadini e degli agricoltori. Il progresso non si arresta e ulteriori miglioramenti saranno possibili se si riuscirà a far prevalere spirito d’iniziativa e cultura di mercato. Ma il passato non è possibile cancellarlo.

Il dovere dei protagonisti di ogni processo di cambiamento politico, economico, sociale, tecnico è trasmettere quell’esperienza alle generazioni future. Si tratta di valori oltre che di saperi. Gli uni e gli altri sono parte integrante della storia di ogni uomo e della comunità alla quale appartiene.

Si può pensare a musealizzare la storia e le tradizioni ? Probabilmente no, anche se in tempi recenti la scomparsa della civiltà contadina e la trasformazione del mondo rurale hanno spinto molte comunità a creare dei musei locali a carattere etnografico e antropologico, incentrati sulle tecniche di lavorazione della terra, sul recupero e sulla conservazione degli antichi attrezzi agricoli.

Probabilmente varrebbe la pena, sul piano culturale, pensare a un museo della civiltà contadina e del mondo rurale del Poro. Ma questo non è compito di chi scrive e comunque di chi vive lontano dai territori e dalle comunità interessate. 

Roma, Marzo 2010

_________________________________________

 [1] Per una storia ragionata e documentata del pane vedi Corrado Barberis, Atlante dei prodotti tipici. Il pane, Agra, Roma 2000 e Giovanni Rebora, La civiltà della forchetta, Laterza, Bari 2002. Vedi anche Agostino Bagnato, L’industria agro-alimentare italiana, l’albatros, Roma 2004.

[2] Parte delle cose raccontate di seguito sono si trovano anche nei miei volumi seguenti: Città e campagne nell’Italia contemporanea, Agra editrice, Roma, 2004; Le radici dell’albero, l’albatros editore, Roma 2009.

[3] Ho cercato di tenere conto di una preziosa ricerca sulle pratiche agricole, le attrezzature e le tradizioni contadine contenuta nel volume Mondo contadino. Progresso tecnologico e strutture tradizionali di Giuliano Cesarini, Edagricole, Bologna 1972.  Per le pratiche agronomiche greco-romane e medievali, da cui discendono direttamente alcuni modi di coltivare il grano in tutta l’area del Mediterraneo, si può fare riferimento, per coloro che volessero approfondire la materia, ai seguenti testi: De Agri cultura di Marco poncio Catone, De re agricola rispettivamente di Marco Terenzio Varrone, Lucio Giunio Moderato Columella, Cassio Dionisio e Rutilio Tauro Emiliano Palladio. Questi testi sono stati tradotti in volgare e pubblicati nel 1494 da Filippo Beroaldo. Le edizioni moderne non sono numerose ma è possibile consultare i testi in numerose biblioteche pubbliche. Per quanto riguarda gli aspetti alimentari e sanitari, si può fare riferimento al Theatrum Sanitatis di Ububchasym de Baldach (codice 4182 della Biblioteca Casanatense di Roma) e al Tacuinum Sanitatis della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, oltre che agli antichi testi della Scuola salernitana di medicina.

[4] Per una dettagliata descrizione del lavoro agricolo e dell’impiego degli attrezzi nel lavoro dei campi, vedi il fondamentale volume di Marc Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Einaudi, Torino 1972.

[5] Per  la cultura rurale nella formazione di alcune figure importanti di intellettuali italiani, vedi Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino 2008; Franco Ferrarotti, Le briciole di Epulone, Donzelli, Roma 2003 e il saggio Elogio del lavoro contadino, in l’albatros, anno X, n. 2/200. Per un quadro più generale sulla civiltà contadina e sul mondo rurale, vedi La rivincita delle campagne  (a cura di Corrado Barberis), Donzelli Editore, Roma, 2009.

[6] La parola greca πίτα, pita, significa pane; in ebraico la radice è quasi uguale, pat, חףב, mentre in arabo il suono è kumat جااهک. Uno studio sull’etimologia della parola pane evidenza la sua origine antichissima, trasmessa poi ai Romani con il termine pane, panis, da cui i termini neoromanzi. La radice slava è invece gleb, quella sassone brt, da cui l’inglese bread e il tedesco Brot. Il pane di grano accomuna, con la sua cultura millenaria, tutti i popoli del Mediterraneo antico. E’ la componente fondamentale della cosiddetta triade alimentare greco-romana: pane, vino, formaggio, cui succederà la triade barbarica basata su pane, cervogia (antenata della birra), carne.

[7] Per una documentazione della presenza del mondo rurale e del lavoro agricolo nell’arte del Novecento vedi: Agostino Bagnato, La pittura contemporanea. Una ruralità ancora tutta agricola e Il cinema contemporaneo accompagna la nuova ruralità, in La rivincita delle campagne (a cura di Corrado Barberis), Donzelli Editore, Roma 2009, pp. 331-342. Vedi inoltre Ruritalia. Agricoltura e lavoro nell’arte del Novecento dal Futurismo a Facebook, catalogo della mostra omonima a cura di Agostino Bagnato e Claudio Crescentini, l’albatros, Roma 2009. Confronta inoltre Claudio Crescentini, Il cibo dell’arte, Arsial, Roma, 1998.

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