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 La Coltivazione del Grano sul Poro

 I Riti della Mietitura e Trebbiatura    'a Metitura e 'a trebbiatura du ranu

'a Metitura

 (La mietitura del Grano)

Amici di Poro.it

Chi scrive è Michele Pontoriero (sordata o ganghi) nato a Spilinga nel 1939, emigrato in nord America nel 1966 di famiglia contadini.

Sono emigrato all'età di 27 anni iniziando a lavorare all'età di 10 anni appena finita la 5° elementare, per ben 17 anni ho fatto i lavori più duri che si facevano nelle nostre campagne del Poro.

Ricordo come tanti miei compaesani della mia stessa età -'A Metitura - (il periodo della mietitura del grano sull'altipiano del Poro), questa durava dai 15-20 giorni continuativi senza riposo; si mieteva continuamente con la falce a mano dall'alba al tramonto assieme alle mie Sorelle e mio Padre che ci esortava a far presto. Era una gara contro il tempo, dovevamo fare presto altrimenti il grano si scuoceva (vuol dire che l'eccessivo essiccamento faceva perdere aderenza compattezza dei chicchi del grano alla spiga con l'elevato rischio di dispersione del il frutto al taglio e durante il trasporto.

La mamma era addetta alla cucina, si preoccupava di preparare e distribuire le risorse alimentari per tutti e non essendoci metodi di conservazione con il freddo, tutto era preparato al momento:

- La mattina all'alba 'a suppa (la zuppa) latte fresco munto dalle vacche che pascolavano vicino ai campi di grano e caffè di orzo con pane tostato (pani tostu) e zucchero.

- Alle 10,30 'u murzeiu (piccolo morso, piccolo pasto) a base di patate bollite del Poro ricche di potassio per ritemprare i muscoli (si diceva che davano sustanza "sostanza"), accompagnate dal famoso pane del Poro ricco di vitamine e proteine, oppure  pasta con il latte sempre di fresca mungitura. 'U murzeiu si consumava prevalentemente sul posto per non sprecare tempi di spostamento, questo avveniva seduti per terra a forma di ruota all'ombra dei centenari e giganteschi Pioppi della storica Villa del Poro. Caratteristico e affascinante era il fruscio dei rami e delle foglie degli altissimi pioppi che mosse dal vento producevano una dolce melodia  che accompagnava il sonno/riposo dei contadini durante le ore più calde della giornata.

- Alle 16 circa vespiri (vespri), dopo il gran caldo veniva preparata la pasta con il sugo o pasta e patate poi si continuava nella mietitura fino all'imbrunire dove ormai a sera si cenava con formaggio di vacca e cipolla.

Da bere solo acqua e il più delle volte neanche fresca perché, si trasportava a mano dentro 'a Bumbula (brocca di terracotta) dalle sorgive che non erano tanto vicino.

Di fatto, appena finita una giornata ne iniziava un'altra, erano tempi duri però eravamo col cuore contento, ma forse era così solo per la nostra gioventù.

ll grano tagliato all'altezza di circa 20 centimetri dal terreno con il cuzzuni (falce manuale) veniva legato in piccoli mazzi (Jermiti) con legami ricavati dello stesso grano ad opera dei mietitori che se le lasciavano dietro dove, generalmente un uomo con braccia forti costruiva le Gregne composte di 4 Jermiti legati insieme da una cintura formata sempre da steli dello stesso grano, lasciandole sul posto. Ne risultava che rimaneva una distesa sparsa di Gregne sul campo che dovevano essere raccolte, trasportate e concentrate sull'aia per la trebbiatura.

Questo avveniva con il carro agricolo trainato dalle vacche (le stesse del latte fresco); io raccoglievo le gregne ad una ad una e li portavo al carro, che si spostava nel campo, qui mio padre li ordinava (faceva 'a carrata), poi li trasportavamo al pagliaio (casa colonica) dove si faceva 'a timogna (covone) e si preparava l'aia per la successiva trebbiatura.

Michele Pontoriero   New Jersey USA  -  Gennaio 2006

 Briatico 1930:  'a metitura

'a Trebbiatura

 (La trebbiatura del Grano)

La trebbia si spostava in ordine topografico da un'aia all'altra fino a giungere da noi, in quel giorno l'atmosfera era bellissima e indescrivibile, indifferentemente per grandi e piccini. Per i grandi era giunto il giorno della raccolta del frutto del proprio lavoro svolto per 8 mesi dalla semina in poi e grande motivo di soddisfazione e appagamento, oltre che garanzia di alimentazione per la propria famiglia; per i più piccoli era grande gioia e entusiasmo per tanta novità che si svolgeva intorno, era una vera festa.

In quella giornata stupenda si lavorava di fretta ed in sincronismi, ognuno di noi era destinato ad un posto di lavoro di tutto il processo della trebbiatura:

uno posizionato sulla timogna (covone) porgeva/lanciava 'i gregni sopra la trebbia dove un'altro cu cuzzuni (la falce) tagliava il legame ai gregni ricevuti, ne rimanevano sciolte le Jermiti; l'operaio della trebbia con grande maestria li infilava in rapida successione nella bocca della trebbia, ricordo che con un tonfo particolare e indimenticabile le inghiottiva per la produzione del grano.

Un'altro era intento a sistemare di lato le balle d'a pajja (della paglia) formata dagli steli del grano, le balle li produceva una macchina che avendo un elemento a forma di collo e testa di cavallo provocava curiosità e ammirazione nei bambini.

Un'altro raccoglieva 'u puju (la pula) derivante dalle spighe; altri, in genere donne e ragazzi, stavano davanti alle bocche della trebbia di uscita del grano che ormai pulito cadeva nel sacco di Juta appeso. I sacchi riempiti e chiusi con legame di gutimu venivano da forti giovani spostati e in ordine accatastati, qui i bambini ci si coricavano sopra come per prendere possesso di tanta Grazia di Dio, era un momento veramente magico.

Successivamente questo grano veniva esposto al sole di agosto ( il sol Leone) per asciugarsi bene e poi custodito in un sacco grande ('a Salodda), che posto in luogo asciutto della casa rappresentava la riserva per tutto l'anno, da qui ogni settimana ne veniva prelevata una quota adeguata al bisogno della famiglia e inviata al mulino per la macinazione.

Il pranzo per la giornata della trebbia era come quello di un giorno di festa, quasi dappertutto a secondo della durata della trebbiatura in quella aia, si mangiava due volte al giorno. Sempre preparato dalla mamma ( 'a massara), si trattava di pasta al sugo con le salcicce già conservate appositamente nel vaso della saime (strutto) dal Natale precedente; poi capocollo anch'esso conservato per l'evento e ottimi peperoni, patate e uova fritte nel puro olio di oliva delle colline del Poro e ancora salami vari compresa la nostra nduja.... e tanto altro.

Da bere c'era il vino ma non a volontà, perché era limitato anche per sicurezza (la trebbia era molto pericolosa avendo molti organi in movimento e bisognava essere sempre lucidi), il massaro padrone dell'aia teneva la bottiglia in mano e riempiva un bicchiere massimo due a testa.

Adesso che sono pensionato mi passano per la mente questi bellissimi ricordi e penso come è cambiato il mondo, ci bastava poco per essere contenti, e anche se oggi non ci manca niente, sentiamo la mancanza di quel tipo di vita e della nostra terra (la bella Italia).

Michele Pontoriero   New Jersey USA 

Gennaio 2006      

'a trebbiatura

'a metitura

Il contributo di Francesco Fiamingo

“ I metituri "

Racconto inedito tratto dalla raccolta “Quadretti  Zungresi”

E’ una mattina d'inizio Luglio ed in Via Umberto, sulla panchina in cemento, si respira il fresco del mattino, mentre di fronte, il sole illumina la parte superiore della siepe costituita da rovi e piante di sambuco; seduti ed intorno alla panchina, si trovano gruppetti d'uomini che parlottano tra loro, ogni tanto qualcuno  gira con lo sguardo all’indietro, mentre qualche altro fa un passo a sinistra per guardare l’altezza del sole.

Questi gruppi di persone, danno l’impressione di essere in una fase d'attesa, sono i cosiddetti "metituri frusteri " vale a dire, mietitori provenienti d'altri paesi, che in questo periodo prestano la loro mano d'opera, nella raccolta del grano nelle nostre campagne. E' bene precisare che in quel periodo di riferimento, il nostro fertile territorio, era adibito esclusivamente alla coltivazione del grano o granturco ed i lavoratori locali non erano sufficienti. I piccoli proprietari  avevano l’esigenza di eseguire al più presto la raccolta per il pericolo d'incendi, inoltre era usanza che il grano doveva trovarsi disposto sull’aia in grandi covoni già prima della Festa del 5 agosto, pronto ad essere trebbiato.

Questi  "metituri" erano inoltre molto richiesti, per la particolare abilità in questo genere di lavoro. In lontananza sulla strada, appare "u massaru Ciccantoni", al quale occorrono almeno quattro mietitori; è arrivato presto per appaltare i più capaci. I mietitori si mantengono raggruppati intorno al muretto, nei loro discorsi commentano il lavoro della giornata precedente, la tipologia del grano o avena che hanno lavorato, il pranzo fornito dalla massara " 'o morzeiu ", in pratica prima di mezzogiorno, e la colazione "cu vesperu"  nel pomeriggio. Di questo alcuni elogiano i proprietari per quello che gli è stato fornito, pasta, satizzi, supprrassata, capicoiju, insalata di pomodori e vinu bonu, altri si lamentano perché hanno avuto del vino torbido, lardo di maiale "salatu" (il salato). Insalata piena di cipolla senza pomodori, olive in salamoia; in ogni modo si spera in meglio per la giornata in corso.

Nel frattempo sono arrivati altri mietitori in bicicletta che si sono momentaneamente seduti sui gradini in cemento del palco. Vestono una camicia di colore beige militare e tengono la falce chi appoggiata sulla spalla, chi agganciata alla cintura dei pantaloni. Il nostro Massaro, con aria sorniona, scruta l’ambiente senza esporre subito le sue necessità, sviluppando in sé  alcuni ragionamenti: Il mietitore che si attorciglia una sigaretta con tabacco già di buon mattino, chissà quante volte si fermerà durante la giornata per rifarlo; quelli che hanno la bicicletta e “ 'u rivoggiu o puzzu “ (l'orologio al polso) ad un preciso orario lasciano il lavoro qualunque sia la necessità in quel momento, perché intendono ritornare la sera al proprio paese, mentre “all'anta” (al fronte di lavoro) del nostro massaro, l’orologio ha un solo nome “ 'u suli “ (il sole). Questo significa che la giornata lavorativa inizia di buon mattino, per terminare con il calare del sole; sono queste le ore meno calde in cui si riesce a lavorare con meno fatica, mentre nelle ore più calde è possibile riposare o schiacciare un pisolino all'ombra.

I mietitori nel loro parlottare, fanno sfoggio d'alcuni strumenti che utilizzano durante il lavoro, si tratta d'astucci di canna  denominati “canneji” (cannelli di canne) che il mietitore infilza parzialmente sulle dita della mano sinistra con la quale impugna il fascio di spighe a protezione da eventuali tagli della falce. Con le prime ore del mattino, tutti sono appaltati per la giornata lavorativa o per più giorni e si avviano, per le strade di campagna insieme al datore di lavoro, chi a piedi, chi sul carro agricolo del massaro, chi come qualche anziano in groppa al suo asino. La giornata di lavoro anche se pesante o lunga, è trascorsa nella piena allegria con canti popolari, non mancano riferimenti alle canzoni di San Remo o napoletane, oppure ai primi programmi popolari della televisione, quale il  "Musichiere". Di tanto in tanto, alla richiesta dei mietitori, un ragazzo con una "gozza" di terracotta svolge il compito di portare una bevuta d'acqua fresca, o  un bicchiere di vino travasato da un barilotto di legno definito "pirettu".

La prima interruzione del lavoro avviene intorno alle ore undici, orario indicato come “u morzeiu”, quando arriva “a massara ca cofineia in testa”. La donna apparecchia per terra al fresco di un albero il pasto principale della giornata. Le giornate sono normalmente calde ed assolate; con le ore pomeridiane il mietitore volge spesso lo sguardo verso il nord dell'orizzonte. La comparsa di piccole nubi basse anticipa l'arrivo di un leggero venticello fresco con un pò di "rifrigeriu" (rinfresco); quando ciò non avviene, le ultime ore della giornata diventano le più calde, e nel detto locale questa fase è indicata come "scindiu na rasa i suli".  Sono ore di lavoro molto pesanti in cui il frinire delle cicale prende il sopravvento su tutte le altre voci. Una breve interruzione pomeridiana, per mangiare un boccone e dissetarsi costituisce una consuetudine definita “ 'u vesparu”. Si  prepara un’insalata di pomodori e cipolla, “ u salatu” tagliato a quadretti, e la rimanenza di qualche bicchiere di vino. L'ultimo lavoro della giornata consiste nel concentrare in alcuni punti del terreno i fasci di grano mietuti. Il massaro con esperienza e maestria li dispone uno sull’altro a strati circolari con la spiga rivolta all'interno. Ne viene fuori un covone a forma conica, comunemente chiamato "timogna". Sull'ultima spira di "gregne" è fissato il ramoscello d'olivo  benedetto, ormai secco, disposto nel campo il giorno delle Palme.

Ormai è buio, i mietitori abbandonano i campi per dirigersi verso il paese e sulla strada si concentrano a "frotte", vale a dire a gruppi, per chiacchierare lungo il percorso. L'uomo anziano insieme al nipotino procede in groppa al suo asinello, la moglie con il cesto circolare in testa, per mantenere il passo, si aiuta nel suo camminare aggrappandosi alla coda dell'asino. Il carro agricolo, con tutti i famigliari e quanti riescono a salire sopra, prosegue nel suo percorso verso il paese lasciando dietro una scia di polvere.

A sera, i mietitori cenano mettendo qualche boccone  in fretta, nella casa del proprio datore di lavoro, poi si recano in uno dei tanti fienili nelle vicinanze del paese dove, su un giaciglio di paglia, trascorrono la notte. Sono notti calde e stellate del mese di Luglio, il “tir tir tir “ dei grilli copre il silenzio e di tanto in tanto qualche cicala riprende il solitario frinire.

All’alba il tubare dei piccioni sul tetto del fienile, è la sveglia per il mietitore. Inizia una nuova giornata di lavoro.

Zungri - Febbraio 2006     Francesco Fiamingo 

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