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 a 'na Cotrarea   di Antonio Cotroneo 

  >>====> Tropea 

- Poeta e Scrittore -

Antonio Cotroneo

nato a Tropea  il 28.7.52 - Laurea in Scienze Politiche Messina, vive a Vienna.

Scritture: Lotte per le terre in Calabria 43/45.

Ha partecipato al premio naz. poesia città della cultura di Ischitella. In preparazione:

- Omaggio a Corrado Alvaro;

- Momenti di vita tropeana, 15 poesie di storia tropeana da concetti del poeta;

- Rumanea storia di una ragazza da "Razzia" che emigra per l'Argentina.

Gentilissimo    www.Poro.it

sono il Sig. Cotroneo Antonio da Vienna. Come promesso vi invio una storia del mio libro da Pubblicare; potete scrivere che la dedico a tutti i calabresi emigrati nel mondo.

Dal mio libro "Storii i na cuntrada i Trupea, u Burgu", che tratta le sofferenze e la ricerca dell'infanzia perduta dell'emigrante. Potete alla fine mettere il mio indirizzo e-mail per chi volesse scrivermi.

Ringrazio e saluto tutto il cast di www.Poro.    antoniocotroneo@katamail.com

______________________

 A 'NA COTRAREA   di Antonio Dott. Cotroneo

Tutta la storia nasce da un incontro fortuito, non appositamente cercato, vicino a una piccola piazzetta del centro storico di Tropea dove si trova una delle più belle e artistiche fontane del paese: I Tri Funtani.

Un’esile e minuta ragazzina, proveniente da un paese vicino, dopo essersi dissetata, mi chiedeva timidamente dove si trovava il la scuola media statale. Dovendo fare la stessa strada, l´accompagnavo fino al plesso scolastico principale. Durante il cammino scambiavamo qualche parola e una volta arrivati davanti al portone ognuno entrava nella propria classe, perché iniziava il primo giorno di scuola. Successivi incontri vicino alla fontana della scuola approfondivano maggiormente la nostra conoscenza. Col tempo prendevo anche l’abitudine di accompagnarla, tutte le mattine, dalla piazza principale, (qui avveniva la fermata dell’autobus della ditta Pugliese che portava i ragazzi dei paesi viciniori fino a Tropea) fino al portone della scuola che si trovava in una viuzza del centro storico, a quel tempo molto nota ai tanti bevitori di vino che frequentavano la cantina dei fratelli Coccimiei.

Lentamente fra noi due si instaurava un rapporto d’amicizia schietto, libero, come allora avrebbe dovuto essere fra un ragazzo e una ragazza, senza dover andare in giro per le strade abbassando gli occhi per la paura e nascondendosi per non essere visti da qualche conoscente. Si voleva instaurare una relazione insolita: non di possesso, bensì di comprensione, di fiducia. Si era coscienti che questo rapporto non doveva ledere la libertà dell’altro e non dovevano sussistere condizionamenti e privazioni per entrambi.

Anche se i due paesi erano vicinissimi, il nostro modo di parlare, (i nostri dialetti) le abitudini di vita e le culture, erano differenti. Lei proveniva da un piccolissimo agglomerato di case di campagna, circondato da vigneti e alberi di ulivi, dove la gente era dedita prevalentemente all’agricoltura e all’allevamento del bestiame: un’economia di puro sostentamento familiare.

Tropea, al contrario, presentava tuttaltro aspetto; circondata da “Riaci” fino a “Razzia” dal mare e arroccata saldamente alla rupe, con i suoi numerosi palazzi nobili, espressione di una piccola borghesia provinciale in decadenza. Il nostro poco tempo a disposizione lo passavamo discutendo di problematiche scolastiche e aiutandoci a fare i compiti.

Così, si arrivava verso la fine dell’anno scolastico ad un vero rapporto di stima e di comprensione. I nostri brevi incontri avvenivano pochi istanti prima di entrare e all’uscita di scuola. Aspettavamo quei minuti con trepidazione, per rimanere più tempo possibile vicini l’uno all’altra, come dimostrazione della nostra sensibile e maturata amicizia che, giorno dopo giorno, avevamo volutamente e intensamente cercato. Purtroppo, come tante altre storie comuni del nostro amaro Sud, questa tenera amicizia avrà un’amara e triste fine, purché la ragazzina è costretta a seguire il padre che decide di abbandonare il paesino ed emigrare con tutta la famiglia verso l’industrializzato Nord, non potendo più provvedere al mantenimento dei numerosi figli con il solo lavoro della campagna.

La ragazza, consapevole che una volta lontana non le sarebbero rimaste molte possibilità di ritornare nuovamente al Sud e rivedermi, il giorno prima di partire scende a Tropea, per salutarmi e ringraziarmi per le intense giornate trascorse insieme a me. Con le lacrime agli occhi, prima del commiato, si abbandona ad un lungo e doloroso abbraccio. L’emigrazione: un cancro che fa disperdere e disperare intere famiglie, interi paesi, giovani e meno giovani.

E’ una rivincita, una lotta, una speranza di far meglio o di fare fortuna in paesi lontani dove, talvolta, diventa difficile il semplice comunicare con le persone che ti stanno davanti. Voglio brevemente ricordare di Francesco Perri una delle più belle pagine da me lette sull’emigrazione: ”Preparativi per emigrare”, capitolo settimo del libro Emigranti... I pandurioti, delusi dalla mancata concessione delle terre demaniali, decidono di emigrare in massa verso l’America. Più di quaranta giovani e vecchi disoccupati cercano l’avventura, come rivincita alla loro povertà,  ma, anche come speranza di sopravvivenza, lasciando con dolore la loro terra ingrata, per andarsene con le loro miserie, le loro desolazioni, la loro fede, in un ambiente straniero, difficile e ostile.

Fra costoro, mastro Genio decide di sposare Rosa, la sua ragazza, alla vigilia della partenza per il porto di Napoli. Sebbene il mastro si fosse impegnato a far le cose in grande, la cerimonia dello sposalizio ebbe un carattere triste, malinconico. Non erano pochi questi matrimoni barbari, eroici, pieni di implicazioni psicologiche in Calabria, prima di partire e lasciare per sempre la propria terra natia.

Gli sposi si giurano fede, passano la notte insieme, sanciscono col rito intimo e cruento l’unione delle anime e dei corpi e all’indomani, come nelle favole antiche degli eroi e cavalieri erranti, l’uomo parte, qualche volta per non più ritornare, verso la ricerca di un pane, verso la fronte immensa e lampeggiante del lavoro. La sposa rimane sola, col ricordo e il brivido di una felicità appena intravista, appena gustata sull’orlo della tazza (presagio della partenza senza ritorno).

La poesia che segue mette in risalto il nostro riavvicinamento dopo un periodo di incomprensione, a causa di una erronea interpretazione di una parola dialettale tropeana ritenuta offensiva dalla ragazza. Alla fine della scuola lei scende a Tropea per l’addio; per dimenticare quel momento triste, quella momentanea rottura. Vuole riascoltare la parola fraintesa, “massara”, prima di andarsene e partire verso un mondo a lei sconosciuto, ignaro, non voluto e non cercato da tanti altri giovani come lei.

La sua partenza avrà sicuramente lasciato un vuoto ai parenti, alla gente del suo paese ma, ancor di più, a chi in quel periodo, le era strettamente vicino. La ragazza avrà provato un grande dolore nel lasciare il suo piccolo mondo, le piccole cose e quanto di bello aveva in mente di realizzare. Però, la sofferenza, inconsciamente, era portatrice di una doppia speranza: di miglioramento della propria vita e di un probabile ritorno verso i luoghi della propria infanzia e della gioventù che resteranno per sempre radicati nel suo piccolo cuore.

- MASTRU GIANNUZZU  " 'U SCARPARU " -

" 'Nci volarrenu i petti i ferru sutta e scarpi toi"

Così si lamentava mia madre perché le  scarpe nuove erano nuovamente rotte dopo neanche una settimana che mastru Giannuzzu le aveva risuolate.

La casa del calzolaio, non distante dalla nostra, sembrava un convento. Tutta la giornata c´era un via vai di gente che entrava ed usciva, portandogli paia e paia di scarpe da riparare e ritornando a casa con quelle che il mastro aveva acconzatu.

U misteri du scarparu, (del calzolaio) insieme a quello del falegname e del fabbro, era una delle attività  artigianali che più  prosperavano dopo gli anni sessanta nel nostro paese. In ogni rione di Tropea se ne contavano  parecchi di questi acconzatur´i scarpi”. L´età media dei mastri che esercitavano questa professione nella nostra contrada era intorno ai sessant´anni. Fra i tanti ricordo Mastru Vicenzu Bova, la cui bottega si trovava vicino alla fontana comunale; Mastru Nuzzu che esercitava u misteri dentro casa; Mastru Cicciu e mastru Carminu che abitavano nello stesso portone di mia nonna; “Ntoni e mastru Micheli,  due fratelli che vivevano soli in una vecchia e buia abitazione vicino al mio negozio.

Alcuni di questi scarpari, oltre ad esercitare la professione, erano dediti anche alla vendita di scarpe nuove e stivali di gomma che venivano usati dai contadini e dai cacciatori. Al contrario degli attuali tempi, in cui si preferisce buttare via le scarpe rotte a causa dell'eccessivo costo per  ripararle, a quel tempo dovevano essere  acconzati e risuolate finchè era possibile, perchè non tutti potevano permettersi di comprare nuove calzature e  rimetterle a nuovo non era costoso dato il forte antagonismo e la concorrenza che i mastri esercitavano fra di loro.

Le strade non asfaltate, piene di pietre appuntite, vetri epuntini” (chiodi), contribuivano ad una loro rapida usura e rottura, in special modo dei “petti ” che dovevano essere rimessi due o tre volte. Le scarpe stesse erano costruite (cucite, incollate e inchiodate) in modo tale da poter essere sempre e facilmente riparabili.

Fino alla fine degli anni settanta,  scarpari ”  in paese se ne contavano ancora molti, ma si riducevano drasticamente per il fenomeno dell'emigrazione che portava via tanti bambini di famiglie povere. Infatti, i discipuli che andavano “o mastru”,  per apprendere l'arte, provenivano, principalmente, da queste famiglie  bisognose.

Il mastro non si limitava solamente ad insegnare “l´arti” al discepolo, perché  svolgeva, inconsciamente, un'altra più importante funzione: l'educatore morale e sociale del ragazzo. Infatti, l'apprendista, remunerato settimanalmente con qualche spicciolo, oltre ad imparare il mestiere per poter un domani vivere, a casa del mastro era anche salvaguardato e protetto, affinché non andasse in giro per il paese a vagabondare, oziare, frequentare brutte compagnie che lo avrebbero sicuramente condotto sulla strada sbagliata: la malavita.

Se il mastro notava che “u discipulu” era ubbidiente e volenteroso, pazientemente gli trasmetteva tutti i segreti del mestiere, affinché un domani divenisse un valente  “scarparu”  ed essere, così, orgoglioso di aver contribuito non solo a farlo “mastru” ma anche uomo corretto, stimato e ben voluto dall'intera collettività del paese. Attualmente, calzolai se ne contano ancora un paio che  esercitano “u misteri” facilitati dai moderni  macchinari e attrezzature  messe a disposizione dall'industria. Io sono nato un  piano sopra la casa di Mastru Giannuzzu. Dato che la nostra abitazione era pericolante, mia madre, qualche anno dopo, si trasferiva in una casa più grande di fronte al Mastro. Uscendo dalla sua porta c'era un piccolo giardino, con tanti fiori, che lui annaffiava e curava con tanta pazienza e dove io, da bambino, mi recavo a giocare, guardato da sua moglie. Il  mastro era tipo di poche parole, laborioso davanti al “banchettu di scarpi”; attaccato alla famiglia e, ancor di più, alla sua tromba con cui si esercitava tutti i giorni durante le frequenti pause lavorative.

Aveva un orecchio musicale finissimo ed era capace di accordare la mia chitarra in un batter d'occhio. Poi, con lo strumento suonava e strimpellava  vecchie canzoni  di  “sonatur'i sutt'e barcuni” e stornelli calabresi. Dirigeva una banda  composta da vecchi artigiani tropeani che si recavano a piedi nei paesi viciniori di campagna, per suonare durante le processioni e le  feste campagnole. Era denominata “banda du vinu”, per le tantissime stonature che si sentivano (quando i componenti della banda arrivavano a piedi al paese e  iniziavano suonare  erano già brilli) e per i contratti atipici che stipulavano con i parroci e le commissioni delle feste. Infatti, quando “s´addubbavanu ”, (si accordavano)  chiedevano poco denaro per la prestazione. Preferivano i prodotti locali (´ndujia, suppressati, salami, capicoi, pan'i casa) e, specialmente, vino che bevevano mentre ritornavano a piedi al paese. Spesso, parecchi componenti della banda rientravano  barcollando per le strade, tanto che dovevano essere accompagnati dai parenti e dagli amici fino a casa.. Un'altra importante funzione esercitata dal calzolaio, era quella di suonatore di grancassa e tamburello, per la festa folcloristico popolare burghitana: ” I tri da Cruci”.

Ogni sera, prima che  iniziasse a battere la “grancascia” (grancassa), decine di ragazzini burghitani lo aspettavano con impazienza presso la fontana, affinché ne scegliesse uno per reggergli il grande tamburo. Una volta ho provato una grande gioia quando ha voluto che io gli tenessi  “a grancascia” per tutto il percorso.  Infatti, prima di sera i suonatori, scendevano dal Borgo tambureggiando e, arrivati a villetta svoltavano per via  Nazionale. Salendo da questa strada  arrivavano in  piazza, a Porta Nova, dove si riposavano per una decina di minuti davanti al Purgatorio. Poi riprendevano nuovamente a tambureggiare e i colpi, dati con un mazzuolo imbottito, erano più forti, più veloci, in modo da richiamare maggiormente l'attenzione delle persone che si trovavano a passare.

I suonatori, dopo aver finito di battere, (qualche anno anche mio zio Lorenzo ha suonato il tamburo per la “Santa Croce”) rientravano al borgo, dove  le donne, già radunate vicino a un altarino abbellito con fiori di campo, attendevano il loro rientro per iniziare a recitare la litania. Mastru Giannuzzu u scarparu è stato, indubbiamente, uno dei personaggi più carismatici della contrada e che io ho avuto modo di conoscere. In lui si notava una grande serietà, un forte attaccamento al lavoro e alla famiglia. Amava la musica e, sopratutto, il gruppo dei bandisti che  aveva formato e che con tanto entusiasmo dirigeva. La passione per la musica lo induceva ad esercitarsi costantemente e quotidianamente con il suo strumento preferito: la tromba. Infatti, prima di partire  per una festa di paese, lo si  vedeva dietro la  finestra a provare e riprovare ripetutamente le marce e i pezzi musicali. Prendeva con molto impegno e serietà tutto quello che faceva nella vita, mettendoci tanto amore e umiltà, trasmettendo a molti altri quanto di positivo c'era in lui. Non voleva strafare, emergere a tutti i costi. Intendeva solamente trarre, da quanto faceva, piccole gioie e soddisfazioni che lo rendevano felice e, nello stesso tempo, lo portavano ad amare la vita.

Il mastro ha esercitato u misteri du scarparu e ha suonato con la banda fino a tarda età.

*************

Mali tempati, friddu siccu, frevaru,

fora scuru, paru paru1.

'Nto portuni, com'aspettava u pecuraru,

viu passari veloci, o mastru scarparu. 

“Ossequiamu Mastru Giannuzzu! Chi si dici!

Stu misi, mali tempuni chi 'ndi fici,

no si po’ nesciri,

manc'a chiazza, potimu iri”. 

“Tu! O portuni, di bon'ora?”.

“Aspettav'u ricottaru, pi chistu fora”.

“Mastru! E a banda?

Na viu nesciri a 'nujia vanda?”

“I musicanti vostri minanu pi vinei,

chi tiranu diritti di Coccimiei2.

Chi fati, vi riposati?

E’ na simana, chi no provati”.

“E no sentu manc'u trumbuni,

chi quandu 'ntrona, scas'u portuni3.

E manc'a trumba,

chi, quand'attaccati, a casa rimbumba”.

“I sti tempi, nu mund'i fari,

centinar'i scarpi spracasciati, d'acconzari,

a casa, par'a pricission'i Sant'Antoni,

scarpuni e scarpini sdillabbrati4, a milioni”.

“Muggherima5, prioccupata povirea:

“Giannuzzu! I tri! Si rifriddò a pasticea”.

“Mariangiula! Va dinta e stira!

Accuppala6 !  Ma quaddei7 stasira”. 

“Però Totò, u clienti è clienti,

no po’ diri no, ti cangia 'nta nu nenti”.

“Mastru! Scarpi  'nd'aviti na muntagnata,

sim'a fevraru, 'ncii cunsignati pa Fer 'a nunziata?

“L'atra simana u spusaliziu, da cummari,

cchiu’ tardu, vi cal'i mei d'acconzari.

Vi raccumandu, facitimmilli comu sapiti,

sulu chisti, pi strati e pi ziti.”

“Cu tempu toi! P 'amuri i Deu!

Pi tacch'e soli, 'u re su ggheu,

portammilli e no ci penzari,

na vot'acconzati, tri anni pò caminari”.

“Mastru! Mentitici cromatina,

no cu puzzu8 e sputazzina”.

Comu parru, i l'atru latu na friscata,

u nannu, voli 'ncuna cosa accattata.

“Totò frisca, non avi i far ' i petti

sicuru i Don Titanu pi sicaretti”.

“E’ ghhi'arret'o portuni, u zu Pascali,

è l'ura, u ci'accatti9 ' i nazionali”.

*************

1 SCURU PARU PARU = tutto buio

2 COCCIMIEI = fratelli che gestivano una cantina al vescovado

3 SCAS`U PORTUNI = il portone sembra cadere

4 SDILLABBRATI = tutte aperte, rotte

5 MUGGHIERIMA = Mia moglie

6 ACCUPPALA = coprila

7 QUADDEI = riscaldala

8 PUZZU = polso

9 ACCATTI = comprare (compri)

Dialetto Tropeano

Italiano

A 'NA COTRAREA

Certi matini m’izav’o scuru, prestu,

mi lavava e stujiava a facci, lestu,

passandu, l’avutri rivigghiava,

patrima sulu, fundu, rocculiava .

 

Mauma du lettu: Chi succediu ?

Su misi chi stranu ti viu!

E sei sgarii e fai nu fracassu

Ima ! Chin’i compiti, o mi ripassu.

 

No ‘mbolea semp’u m’ammentu ,

ma no ‘bide ‘u momentu,

‘u smicciu l´atobussu di vitti scindiri,

i Sant´Angilu , alleggiu alleggiu veniri.

 

U carrettuni, portava figghiol’i scola,

sparaggia viaggiava ‘ncuna campagnola,

u cchiù, pi disbrigari documenti,

o diritt’a Mutua u si scippa ‘ncunu denti.

 

Quandu a cotrara du mezzu scindea,

e, libbr’e mani, a scola jiea,

già affujiendu, tagghiava di vinei,

u m’arrivu a funtana, o cant’e Coccimiei.

 

 Com’avidea, ch’era quas’o portuni,

all’atri figghioli, dava spintuni,

u ma pozzu, l’urtimi metri accustari,

u ‘nci su vicinu, nu pocu parrari.

 

Sulu momenti, nu par’i gradini,

jeu e dia, ‘nte scali, anzemi, vicini,

u sent’a vuci soi, na parola,

cumpusu: e i compit’i scola.

 

Dint’o cori, era cuntenta,

spagnusa , occhi ‘nterra, attenta,

nommu m’affrunta, paisana o cunuscenti,

subbitu, ch’eramu anzemi, e quattru venti.

 

Capii longhi, cogghiuti, gangh’i focu,

tutt’i dia parea bellu, mi facea gioiosu,

n’avea vesti sgargiusi; vrigognusa, ma galanti,

a riservatizza c’avea, a rendè affascinanti.

 

Ricordu, mi parrò a prima vota,

mi chiamò e tri funtani, o largu Rota,

Pi ffavuri, cotrareu!

Pa scola ancora nu morziceu?.

 

Si bboi T’accumpagnu jieu,

tempu, ‘ndaiu a mundeu ,

fin’o portuni ti pozz’accumpagnari, 

dop’o mi ‘ndi tornu, a gghiocari.

 

I tandu, a campanea, ‘ndi parraumu,

si no poteamu, cull´occhi ‘ndi cercaumu,

a jornata, no si potea concludiri,

prim´o parti, l´avea i vidiri.

 

Na vota, du Bullatu , a villettea,

s´offendiu ca ‘nci dissi: pulita massarea.

Trase ’a scola cu mussu, sa pigghiò,

passav’i mea, l’occhi ‘nterra, s’arraggiò.

 

‘Nci mandai, cu nu cumpagnu, nu bigliettinu,

‘nci’u ‘zzippo sutt’o bancu, o cant’o paninu:

A parola t’ha dissi, vezzeggiata,

cusì a Trupea pi “campagnola”, a parrata

 

Dopu cu leggiu, ‘nc’inteneri’u cori,

rispundiu: Cotrareu! No tegnu cchiu rancori.

Dumani, fora da scola, a funtanea,

adduv’a bettula di frati Goccimea.

 

Ti notava, cutrareu, scunfurtatu,

poi penzai, mu dicisti daveru ammaliziatu

Mi sente ’amariggiata, o ‘ndi riconciliamu,

mi mancanu l’occhi toi, o ‘ndi parramu.

 

Cotrareu! Ti dicu na cosa ‘mportanti,

pi tutt’i dui, tristi, scunfurtanti,

O prossim’annu, t’ha’i mancari,

papa è tostu, voli emigrari.

 

E’ sempi penzerusu, si lagna,

no bbidi abbeniri ca campagna,

vol’u vaci, a Milanu di parenti,

cchiù travagghiu, megghiu stann’i genti.

 

Fin’a fin’i l’annu, a cotrarea,

m’avea jincut’i jiornati, a vita mi lucea.

Fu na bellizza, u primu jiuri,

quandu partiu, dassò grandi duluri.

 

Tutti l’anni, pa festa du paisi ‘nchianava,

e di sutt’o barcuni, mestu guardava,

Picchì si ‘ndi jiu luntanu, i mea,

‘nc’avea volutu beni, a cutrarea.

 

Dulcizza, cu mea all’urtimu eppisti ,

prim’u ti ‘ndi vai pi sempi, mi dicisti:

Figghioleu! Cuntenta d’amicizia, i tea.

Partu, no ti scordari i na pulita massarea.

Antonio Dott. Cotroneo         

A una Ragazzina

Di mattina mi svegliavo al buio presto,

mi lavavo e asciugavo in fretta,

passando gli altri svegliavo,

solo mio padre russava.

 

Mia madre dal letto:” Che ti è successo?

Sono mesi che ti vedo strano,

già alle sei apri gli occhi e fai rumore,

Ma! Ho molti  compiti, devo ripassarmeli”.

 

Non volevo sempre mentirle,

ma non vedevo il momento,

di scorgere l'autobus scendere dalla collina,

e di Sant'Angelo lentamente venire.

 

Il vecchio mezzo portava i ragazzi a scuola,

raramente viaggiava qualche contadina,

per sbrigare documenti o andare alla

mutua per l'estrazione di qualche dente.

 

Quando la ragazza dall'autobus scendeva,

e con i libri in mano verso scuola andava,

io, correndo, accorciavo dalle viuzze,

per trovarmi alla fontana, vicino alla cantina.

 

Appena notavo ch'era quasi al portone,

davo spintoni agli altri ragazzi,

per poterla avvicinare gli ultimi metri,

esserle vicino, parlare un poco.

 

Solo momenti, pochi gradini,

io e lei sulle scale insieme vicini,

per sentire la sua voce,una parola,

confuso:” E i compiti di scuola?”.

 

Dentro di se era contenta,

paurosa, occhi giù, ma attenta, a non essere

vista da persone o conoscenti, perché

l'avrebbero raccontato a tutto il paese.

 

Capelli lunghi, raccolti, gote di fuoco,

tutto di lei mi sembrava bello, mi dava gioia,

non portava vestiti belli, vergognosa, ma galante,

la sua riservatezza la rendeva affascinante.

 

Ricordo che mi parlò la prima volta,

chiamandomi vicino le tre fontane, largo Rota,

Per favore, ragazzo!

Quanto ci vuole ancora per la scuola?”.

 

Se vuoi ti accompagno io,

tempo ne ho abbastanza,

ti posso accompagnare fino al portone,

dopo ritorno perché devo giocare.

 

D'allora, quando suonava la campanella,

ci parlavamo, se non potevano, con gli occhi ci cercavamo, la giornata non si poteva concludere,

prima di partire dovevo vederla.

 

Una volta dal Bullatu (oste), alla villetta,

si offese perché le ho detto “pulita massarea”,

d'allora entrava a scuola col broncio,

passava vicino con gli occhi a terra, arrabbiata.

 

Le mandai con un compagno un bigliettino,

e lo posai sotto il banco, vicino al panino,

“la parola te l'ho detta amorevolmente”,

così si usa dire a Tropea per “campagnola”.

 

Dopo averlo letto, il suo cuore era più tenero,

Rispose: “Ragazzo non ho più rancore!

Domani fuori dalla scuola presso la fontanella,

dove c'è la bettola dei fratelli Coccimiei.

 

Ti vedevo “cotrareu” sconfortato, poi ho

pensato se me l'avevi detto con malizia,

sono anch'io amareggiata, dobbiamo riconciliarci,

mi mancano i tuoi occhi, dobbiamo parlarci”.

 

Cotrareu, ti dico una cosa importante,

per entrambi triste, sconfortante,

il prossimo anno ti mancherò,

papà è deciso, vuole emigrare”.

 

E’ sempre pensieroso, scontento,

non vede per noi un avvenire con la campagna,

vuole andar dai parenti a Milano,

dove c'è più lavoro e si vive meglio.

  

Fino alla fine dell'anno scolastico,

mi aveva riempito le giornate, la vita mi sorrideva,

Era una bellezza, il primo fiore,

partendo, ha lasciato un forte dolore.

 

Ogni anno salivo al suo paese per la festa,

e da sotto il balcone guardavo triste,

perché se n'è andata lontano da me,

avevo voluto un gran bene alla ragazza.

 

Dolcezza, l'ultima volta con me hai avuto,

prima di partire per sempre hai detto: “Figliolo”, sono rimasta contenta della tua amicizia.

Me ne vado, non ti scordare di una “graziosa massarea”.

Antonio Dott. Cotroneo      

 La stazione ferroviaria; di: Antonio Cotroneo

A STAZIONI

Cu 'nchianava pi passiata,

o arsuriatu pi 'mbiviri,

noleggianti fora 'nta strata,

e tanti cu scatul'e balici pi partiri.

 

Centinar'e genti,

jieanu e veneanu,

si n'aveanu i fari nenti,

all'umbra di chianti discurreanu.

 

 Giuvani allorditta, vecchiarei stanchi,

assettati subb'e panchini,

si riposavanu l'anchi,

guardandu sprecciari merci, litturini.

 

Chi ggheri pulita e bea,

curata, tutt'arburi e jiuri,

o cant'e binari da funtanea,

scurrea acqua tutti l'uri.

 

Non eri spiciali, randi,

'mbecchiata stazionea,

serviziu rendei a tanti,

di casali e Trupea.

 

'Mbernu, stati, sempi china,

di frusteri e paisani,

chi beneanu da marina,

chi tappini e con´e mani.

 

Tren'e treni transitavanu,

alleggiu alleggiu, velocementi,

o primu binariu si fermavanu,

lesti 'nchianavanu e scindenu genti.

 

Chiu tempu daveru lucei,

nu veru splenduri,

diretti, espressi e localei,

e ferruveri tutti l'uri.

 

Nta sala aspettavanu,

poviri e gnuri,

gnuranti e dutturi,

mammi, fimmini schetti,

bagnaroti cu cascetti.

 

Menz'addurmentati cangiaturi,

cu cati rocchellini e maccaturi,

Massari cu cernigghi,

chin'i formaggiu, gaini, cunigghi.

 

Giuvinei e chiumputi signurini,

cu labbra pittati e randi ricchini,

vindituri i doti, cummercianti,

'mpegati e rapprisintanti.

 

In permessu recluti e militari,

u si ricogghinu di familiari.

Sparaggiu 'ncunu frusteri,

cu figghi ninni e muggheri.

 

Ufficiali postali cu l'occhi sgariati,

ferruveri cu divisi ´nzivati,

'nta murra 'ncunu 'ntuntutu,

chi guarda scumpundutu.

 

Penzerusu nu nuvellu carabbineri,

cu vicinu du paechi e nu pileri,

e i soliti abbitudinari,

chi campanu binari binari,

viaggiaturi senza bigliettu,

chi 'nchiananu diritti 'nto gabinettu.

 

Sira, a stazioni cangia aspettu,

malincunia, tristezza nta sala d'aspettu,

i tutt'i vandi cu grandi bbalici,

accumpagnati di parenti e d'amici.

 

E 'ndi partunu  tanti,

scumfurtati, avviluti, affranti.

L'urtimi minuti son'a campanea,

prim'u si distaccan'i Trupea.

Abbrazzi, stringiuti, nu lacrimari,

prima u si 'ndi vannu, emigrari.

 

Staziunea, quantu e quantu sceni,

subb'a chi struduti binari,

e quantu e quantu peni,

partendu, si portaru l'amari.

 

Tandu, du paisi vecchiarea,

eri nu veru amuri,

parti viva du paisi, Trupea,

nu profumatu jiuri.

 

Mo’, quandu vegnu,

m'affacciu cu duluri,

di chiu tempu nujiu segnu,

sulu mundizza,  fituri.

 

Nu trenu a gghiornata,

l´ufficiu 'mperratu,

mancu na ritirata,

nu scenariu disulatu.

 

Senz'acqua a funtanea,

u signaturi du tempu ruttu,

porta scassata, senza vitri a finestrea,

anima no si vidi, nu luttu.

 

Di bellizzi c'avei,

resto’ nenti,

comu tutt'i cosi bei,

i stu paisi decadenti.

 

Emigranti e frusteri,

appena i tea mentunu pedi,

si fannu amman'ammanu pinzeri,

i quantu succedi.

 

Stu locu, na vota attrazioni,

primu 'mpattu, “bigliettu”,

n'amara presen..stazioni,

di nu poiticari “inettu”.

 

Di glori campamu, e si vantanu,

sindacu, atri  eletti,

i probblemi chi vruscianu, u scottanu o, comu sempri, pront'u si dimetti.  

 La stazione ferroviaria; di: Antonio Cotroneo

A  STAZIONI

Chi saliva per passeggiare,

o assetato per farsi una bevuta,

noleggiatori fuori ad aspettare,

e tanti con scatole e valigie pronti per partire.

 

Centinaia di persone,

andavano e venivano,

se non facevano niente,

all'ombra degli alberi discorrevano.

 

Giovani in piedi, vecchi stanchi,

seduti sulle panchine,

si riposavano,

guardando sfrecciare treni merci e locali.

 

Com'eri graziosa,

curata, piena di alberi e fiori,

vicino ai binari, da una fontanella,

scorreva acqua tutta la giornata.

 

Non eri speciale, nemmeno grande,

invecchiata, piccola stazione,

rendevi servizio a tanti,

dei paesi vicini e Tropea.

 

Sia d'inverno che d'estate sempre affollata,

di forestieri e paesani,

che salivano dalla marina,

con sandali e mangiando gelati.

 

Parecchi treni transitavano,

piano piano, velocemente,

al primo binario si fermavano,

prontamente salivano e scendevano i passeggeri.

 

Quel tempo eri piena di vita,

uno vero splendore,

si notavano diretti, espressi e locali,

ogni ora della giornata.

 

Dentro la sala d'aspetto,

poveri e proprietari terrieri,

ignoranti e dottori,

mamme, donne non sposate,

donne di Bagnara con cassette di pesce.

 

Scambiatori di merci assonnati,

con secchi, gomitoli di filo e fazzoletti,

Contadine con canestre di vimini,

piene di formaggio, galline, conigli.

 

Ragazzi e formose signorine,

con labbra piene di rossetto e grandi orecchini,

venditori di biancherie, commercianti,

impiegati e rappresentanti.

 

In licenza reclute e militari,

per ritornare dai familiari,

Raramente qualche forestiero,

con bambini piccoli e moglie.

 

Impiegati delle poste, ancora addormentati,

ferrovieri con le divise tutte unte,

fra i tanti qualche intontito,

che si guarda attorno confuso.

 

Pensieroso un giovane carabiniere,

con vicino due scemi di paese,

e i soliti viaggiatori,

che vivono stazione stazione,

viaggianti sprovvisti di biglietti,

che salgono e vanno diritti al gabinetto.

 

Sera, la stazione cambia aspetto,

malinconia e tristezza nella sala d'aspetto,

vengono da ogni dove con grandi valigie,

accompagnati da parenti e amici.

 

E ne partono tanti,

sconfortati, avviliti, affranti,

Qualche minuto prima suona la campanella,

prima che si distacchino da Tropea.

Abbracci, strette, un lacrimare

Prima di andare via, emigrare.

 

Stazioncina, quante scene ho visto,

sopra quei binari consumati,

e quante pene,

partendo, si sono portate gli sventurati.

 

Allora, vecchia stazione del paese,

eri un amore,

parte viva di Tropea,

un fiore profumato.

 

Adesso, quando ritorno,

mi affaccio dal finestrino con dolore,

di quel tempo, nessun ricordo,

solo immondizia, fetore.

 

Un treno al giorno,

l'ufficio chiuso,

nemmeno un gabinetto,

uno scenario desolato.

 

La fontanella secca,

l'indicatore del tempo rotto,

porta  piena di buchi, finestre senza vetri

Non si vede un'anima, un lutto.

 

Delle tante bellezze,

non e’ rimasto niente,

come tutte le cose carine,

di questo paese in decadenza.

 

Emigranti, forestieri,

appena scendono alla stazione,

si fanno subito pensieri,

di quanto succede.

 

Questo luogo, una volta vera attrazione,

primo impatto “biglietto da visita”,

una squallida presen...stazione,

di un non sapere fare politica.

 

Si campa di gloria, anche si vantano,

sindaco e altri eletti,

i problemi che scottano,

li bruciano o, come sempre, pronti a dimettersi

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