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 Pasquale Galluppi   Filosofo

Prof. Giuseppe  Lo Cane

>>=====> Città di Tropea

 

Il Barone Filosofo

e i suoi studenti 

Pasquale Galluppi nelle “Ricordanze” di Luigi Settembrini.

Appunti sulla accoglienza, gli anni e tre allievi napoletani del pensatore di Tropea 

 

L’affettuoso ritratto di Pasquale Galluppi che Luigi Settembrini ci ha lasciato nelle sue Ricordanze è tra le pagine più vivaci e piacevoli dell’intellettuale e patriota risorgimentale napoletano. Dal brano che segue emerge non solo il quadro preciso dell’atmosfera della cultura e della società meridionale nella prima metà dell’Ottocento, dominata dai soprusi polizieschi e dall’autoritarismo dell’epoca della Restaurazione; ma anche la gustosa rappresentazione dei sentimenti e degli accorgimenti messi in atto dalle minoranze illuminate per resistere e contrastare questa cappa di intolleranza e repressione politica. E la divertente descrizione di come Pasquale Galluppi riuscì a conquistare la sua cattedra di filosofia nell’università fondata nel 1224 da Federico II, lascia altresì trasparire anche lo speciale legame che univa la biografia di Luigi Settembrini alla terra di Calabria. Studioso di letteratura e già allievo di Basilio Puoti, infatti, il patriota napoletano negli anni trenta dell’Ottocento aveva ricoperto la cattedra di Eloquenza presso il Collegio di Catanzaro, e nello stesso periodo era stato, con Benedetto Musolino, tra gli sfortunati promotori della Giovane Italia di Giuseppe Mazzini in Calabria.

Prospetto della Città di Tropea tra i promontorj Sabrono e Vaticano - Incisione su rame, attr. a G. Fortuyn, 1777

 Nel brano delle Ricordanze dedicato al Galluppi - la storia del coltissimo ma ingenuo e orgoglioso filosofo che, partito dalla natia splendente Tropea, si presenta direttamente al ministro di Polizia di Ferdinando II per reclamare la nomina alla cattedra di Logica e Metafisica nell’università napoletana, ormai priva di titolare da cinque anni - il climax è rappresentato, da un lato, dalla fiera e stizzita replica del Galluppi (riportata dal Settembrini, con compiaciuta e autobiografica competenza, rigorosamente in dialetto calabrese) alle boriose ma legittime obiezioni del ministro borbonico; d’altro canto, dall’effetto che l’avvenimento ebbe sull’ambiente intellettuale partenopeo, nel quale Galluppi era da molti conosciuto e stimato. Peraltro, al lettore contemporaneo gioverà ricordare che gli eventi si svolgono nella primavera del 1831, e che dunque il ministro in questione – qui non nominato esplicitamente dal Settembrini – presumibilmente era già il famigerato marchese Del Carretto, che proprio quell’anno aveva preso possesso dell’incarico: ovvero colui che sarebbe passato alla storia come il più violento repressore di rivolte contadine e il più spietato persecutore di liberali ed intellettuali (che Ferdinando II chiamava sprezzantemente pennajuoli) del secolo XIX.

 

Tropea - Atrio interno della casa natale di Pasquale Galluppi (foto Libertino)

Tutta la vicenda, che oggi può sembrare quasi incredibile se non assurda, non lo era in realtà del tutto per i tempi di cui stiamo parlando. Principio consolidato nel governo paternalistico di Ferdinando II era infatti quello che oggi definiremmo il diritto di accesso diretto al sovrano, riconosciuto a qualunque suddito; e quando il re non era disponibile, era stato fatto obbligo ai suoi ministri di ricevere al suo posto. Questa consuetudine trovava tuttavia i suoi limiti di fatto nella inconcludenza, farraginosità e corruttela epidemicamente presenti nell’amministrazione borbonica, anche centrale: per cui il tutto si riduceva il più delle volte per i postulanti a interminabili giornate di attesa – facilmente evitabili solo da chi avesse avuto conoscenze a Palazzo o volesse approfittare della permeabilità alle lusinghe di quella amministrazione – spesso frustrate da semplici promesse dei funzionari in sott’ordine o più semplicemente da nessun esito. Quanto tempo ci mise il Galluppi per essere ricevuto dal ministro, se si fosse servito della sua condizione di patrizio tropeano, di accademico prestigioso o più semplicemente di controllore delle contribuzioni dirette e dunque di funzionario governativo (attraverso cui sostentava la numerosa famiglia, poiché, come è noto, spesso philosophia non dat panem), Settembrini non ne dà notizia. La pagina su Galluppi si apre invece con la briosa descrizione delle tuttavia plumbee condizioni dell’università napoletana, nella prima metà del XIX secolo.

    “L’Università di Napoli è stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi ci vanno. Chiunque si presentava e pagava la tassa, e faceva gli esami,  ed era approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre paura di radunare in un solo luogo le molte migliaia di giovani, che da tutto il Regno convenivano a Napoli a studiare, e perciò non li obbligava ad assistere ai corsi e  li lasciava sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’Università come a pompa, perché c’era stata sempre, e non altro che un’officina da sfornare dottori.

Questo produceva un male, ed un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano né si affratellavano tra loro; i professori, per la rarità degli scolari, si svogliavano, benché valenti. … Il bene, che a mio credere avanzava il male, era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza non si imparava dal professore ufficiale, che insegnava come volevano i superiori; ma da maestri privati. …Ed uno di essi diceva: “mi perseguiti pure il governo, purché mi lasci insegnare, ché io insegnando gli fo la maggiore guerra, formo voi altri giovani, che un giorno sarete colti, onesti, generosi e suoi nemici”. E’ vero che per insegnare, ci voleva il permesso della Polizia, ma zitto zitto se ne faceva anche senza, per un otto dieci giovani, che non parevano. Questo libero insegnamento ci ha salvati dall’ultima servitù, dalla servitù del pensiero, che noi avemmo in ogni tempo.

Tra i professori ce n’erano alcuni, che avrebbero onorato ogni università di Europa, come Pasquale Galluppi, che insegnava filosofia, e Nicola Nicolini diritto penale; c’erano Vincenzo Lanza principe dei medici napoletani, Costantino Dimitri valente in anatomia e di mirabile eloquenza, Francesco Avellino dottissimo di molto sapere e giurista profondo; ed altri molti, ciascuno bravo nella sua scienza. …Raramente i professori erano scelti per meriti; ordinariamente per concorso, specie di giuoco che non dà mai il migliore, a cui gli uomini riputati non si cimentano, ma vi si arrischiano i giovani che non hanno che perdere, e chi per avventura sa bene quell'una cosa che è dimandata vince gli altri che ne sanno molte. E poi il governo circondato sempre da spie, da adulatori, e da quelli che usano il sapere a tristizie, non conosceva i valori onesti, o se li conosceva li aveva sospetti per politiche opinioni, e li escludeva anche dai concorsi: onde spesse volte le cattedre erano date a sfacciati ciurmadori.

Udii dallo stesso Galluppi raccontare il modo ond'egli fu nominato professore. Il barone Pasquale Galluppi di Tropea, cittadella di Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le cure della famiglia e le noie dell'uffizio non lo toglievano da' suoi studi filosofici, nei quali egli era sì assorto e si profondava tanto da non udire il diavoletto che gli facevano intorno un vespaio di fanciulli. Scrisse un Saggio critico su le conoscenze umane, che stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia, e levò alto il nome del Galluppi in Francia e in Germania. Essendo vacante la cattedra di filosofia nell'università, gli amici lo consigliarono e la sua coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò dal ministro dell'interno, gli presentò il libro, e chiese la cattedra. Il ministro che non lo conosceva rispose: — Bene: vi cimenterete all'esame. — Ed egli: — E cu c'è a Napoli che po' esaminari Pasquale Galluppi? — II ministro si strinse nelle spalle, e l'accomiatò con un "vedremo".

La sera raccontò nel crocchio degli amici come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva detto non ci essere in Napoli chi potesse esaminarlo. Ci fu qualcuno che dimandò. — Fosse egli il Galluppi? — Non ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato. — È desso, è il Galluppi, il primo filosofo vivente d'Italia —. Sua Eccellenza cadde dalle nuvole: s'informò da altri, udì lo stesso, e lo pregarono desse quest'ornamento all'università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato bene se egli avesse qualche vecchio peccato politico e trovato netto, fu senz'altro nominato professore quand'egli non se l'aspettava né ci pensava più. Con che festa noi giovani e con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con l'accento tagliente del suo dialetto! Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era una forza di verità nuove, ma l'ingegno era grande, e il cuore quanto l'ingegno. Che buon vecchio! quanto amava i giovani!”

  In realtà, Galluppi non aveva tutti i torti a ritenersi offeso dalla fredda accoglienza mostrata dal ministro borbonico nei confronti della sua autocandidatura: a quel tempo, infatti, egli era già membro non solo delle accademie degli Affatigati di Tropea, di quella Florimentana di Monteleone - l’attuale Vibo Valentia - o del Crotalo di Catanzaro; ma anche delle più antiche e autorevoli tra le accademie napoletane, la Sebezia e la Pontaniana. E all’epoca di quello (chiamiamolo così) scambio di idee a Palazzo, già erano stati pubblicati i primi quattro volumi del suo Saggio filosofico sulla critica della Conoscenza, la sua opera più notevole (i primi due proprio a Napoli presso Domenico Sangiacomo, gli altri invece, come ricorda Settembrini, a Messina), i sei volumi degli Elementi di Filosofia, e le Lettere Filosofiche su le vicende della filosofia da Cartesio fino a Kant, il “primo tentativo”, come scrisse Giovanni Gentile, “di storia della filosofia fatto in Italia con serietà d’intenti, ossia con criterio rigorosamente filosofico”. E se del primo dei volumi del Saggio filosofico era stata data pubblica lettura proprio alla Accademia Pontaniana, per quel lavoro il Galluppi aveva ricevuto anche una recensione sulla Revue Encyclopédique in Francia.

 D’altra parte, la polizia napoletana tanto era generalmente incline al sopruso, quanto fu forse in quel caso poco efficiente: avessero indagato bene sul passato politico di Pasquale Galluppi non lo avrebbero affatto “trovato netto”. Ciò che neppure Settembrini probabilmente sapeva – altrimenti difficilmente lo avrebbe omesso – è che il filosofo tropeano aveva avuto invece una vita, per dir così, abbastanza movimentata. Non solo infatti Galluppi era stato arrestato e detenuto nelle carceri di Pizzo, subito dopo la riconquista del Regno da parte di Ferdinando e Carolina, per aver partecipato a Tropea alla repubblica giacobina del 1799, “impiegato a far traduzioni”: verosimilmente di direttive, ordini, comunicazioni o forse anche fogli rivoluzionari francesi; quanto nel 1820 aveva pubblicato vari pamphlet di plauso e di sostegno per la rivoluzione costituzionale guidata dalle truppe del generale calabrese Guglielmo Pepe; e aveva dedicato a quel giovane parlamento napoletano i suoi Elementi di Filosofia, ricevendone anche il pubblico ringraziamento da parte del deputato Luigi Galanti.

In quei suoi scritti, se da un lato il nostro filosofo aveva sostenuto - con accenti evidentemente derivati dal Locke dei Due Trattati - che un governo i cui cittadini “non hanno alcuna sicurezza di godere della vita, della proprietà, della libertà individuale, ed in cui tutti son destinati per la felicità di un solo, non già un solo per la felicità di tutti, è contrario alla natura, ed un tal dritto politico deve dirsi piuttosto una violenza che un dritto”; d’altra parte aveva contestato l’istituzione sotto il nuovo governo della censura preventiva sui libri religiosi e il divieto di farne entrare nel regno di contrari al cattolicesimo: “nuove catene”, le definì allora, legittimamente, il filosofo tropeano, come tali incompatibili col nuovo regime di libertà. E tuttavia è nella ricostruzione degli eventi che avevano portato a quella rivoluzione, che si può rintracciare l’interpretazione del Galluppi su quei decenni tumultuosi vissuti dall’Italia meridionale a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo:

 “Quale spettacolo orroroso presenta Napoli nel ’99! Quanti Tullii immolati alla vendetta di Antonio! Ma quale è mai, in quella stessa immensa capitale, e sotto lo stesso re Ferdinando, lo spettacolo consolante del 1820! Popoli delle Sicilie gioite. Voi avete formato un’epoca memoranda. Appena fu fra voi pronunciato il sacro nome di libertà, la vostra libertà fu colla rapidità del fulmine proclamata e giurata. Il nome augusto di nazione s’intese appena fra voi: la rappresentanza nazionale ha già la sua esistenza, la tribuna legislativa è già innalzata. Soldati dell’esercito di Napoli, la vostra moderazione, la vostra disciplina sono ammirabili. Le falangi nazionali, i soldati della libertà eran solo capaci di operar quel prodigio, che voi avete operato. Ferdinando augusto, Francesco, degno erede del trono di Ruggiero, rallegratevi, i vostri nomi saranno immortali. Voi avete creato una nazione libera. …Ma qual concorso di cause fece passare la nostra nazione dallo stato spaventevole del ’99 alla rigenerazione politica del 1820? Il generale movimento, che ha fra di noi cangiata la forma del governo, può forse riguardarsi come un avvenimento straordinario e non preparato da grandi cagioni? Contempliamo questo memorabile avvenimento nelle sue cause e nei suoi risultamenti, e vendichiamo l’onor nazionale dagli scrittori frivoli e servili del settentrione.

Prima del ’99 lo stato delle scienze nel regno di Napoli era contrario al dispotismo e reclamava lo stabilimento di un governo liberale. La vera filosofia era fra di noi conosciuta e insegnata pubblicamente. Ne cito in comprova le opere di Genovesi, di Palmieri, di Filangieri. I principi liberali sono insegnati, specialmente di quest’ultima opera, con solidità e profusione; l’eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria, vi sono egregiamente stabilite. L’insegnamento teologico aveva fra di noi la stessa tendenza. Le opere di Giannone, di Cavallaro, di Conforti formavano, sulle controversie ecclesiastiche, la pubblica scuola: la superstizione era atterrata. …E la religione, che il fanatismo aveva per più secoli imbrattata col sangue delle nazioni e colla miseria de’ popoli, è divenuta quale dev’essere, e quale è stata nella sua origine, il vincolo della pace e la base delle virtù sociali. Già il sacerdozio più non si mescola col governo. Lo Stato è più tranquillo, e l’altare è meglio servito”. 

 E dopo un’ulteriore ricostruzione politica della storia di quei decenni, ammoniva:

 “Si è cercato di far retrogradare la nazione napoletana: ella ha inteso la sua dignità: il voto nazionale si è manifestato. L’ottimo re ha conosciuto le frodi del ministero, gl’interessi della sua dinastia, la sua gloria: il voto nazionale è accolto: la nostra politica rigenerazione è operata. …Ma, oimé, il sentimento di una felicità tanto inaspettata è già avvelenato dal timore. Una armata austriaca si fa vedere in volto minaccioso nella bella Italia. Cosa vuole egli da noi l’imperatore austriaco? …Con quale altro dritto, se non quello del più forte, potrebbe lo straniero prendere ingerenza negli affari della nostra politica famiglia? …Come non si rispetterebbe la nazione napoletana, che nel manifestare il suo voto adora il suo re, rispetta le autorità costituite, e financo quei ministri che son le cause delle sue disgrazie? …Si proporrà egli forse il governo austriaco di spedire un’armata nel regno di Napoli, per obbligar Ferdinando a governar coi ministri, in vece di governar colla rappresentanza nazionale? Ma Ferdinando non domanda un tale incomodo soccorso; egli ha preferito l’amore del suo popolo a qualunque sacro patto; egli non divide la sua sorte da quella del popolo che l’adora. Un tal cambiamento sarebbe violento, e noi replichiamo:  ciò che è violento non è durevole”.

 

Guglielmo Pepe

 Tutti sanno come poi andò a finire, e quale fu il doppio gioco di Ferdinando I nell’invasione austriaca, nonostante le speranze o le illusioni del Galluppi e di tanti altri.

 In realtà, come avrebbe annotato nel suo diario un gentiluomo ligure, “non so cosa ci porterà questo secolo decimonono, cominciato male e che continua sempre peggio. Grava sull’Europa l’ombra della Restaurazione; tutti i novatori – giacobini o bonapartisti che fossero – sconfitti … Gli ideali della giovinezza, i lumi, le speranze del nostro secolo decimottavo, tutto è cenere”.

E tuttavia – al di là delle possibili negligenze o incapacità poliziesche nella ricostruzione dei trascorsi politici di Pasquale Galluppi – il clima politico, proprio all’epoca dell’episodio raccontato dal Settembrini, a Napoli era in una certa misura cambiato. Come registrò Francesco De Sanctis, in quegli anni ’30 dell’Ottocento “il cielo s’era un po’ rasserenato … Dopo l’odiato Francesco I veniva Ferdinando II, giovane, pieno il capo di miglioramenti, che dava segno di un nuovo indirizzo politico… Non cessò la reazione, ma si stemperò, si sopportò di più la libertà di insegnamento”. Del resto fu proprio all’insediamento di Ferdinando II che il pensatore tropeano, col suo solito atteggiamento fiducioso, si era augurato che grazie al nuovo re anche la mitica Astrea sarebbe tornata sulla Terra, ristabilendo il suo regno proprio “nelle nostre contrade”: volendo qui alludere il nostro filosofo alla leggenda narrata da Esiodo, secondo la quale Astrea - dea della Giustizia, successivamente identificata con Dike – dai tempi più antichi sarebbe fuggita dal mondo, a causa della condotta iniqua degli uomini. E chissà se pure il ritorno a Napoli dello stesso Galluppi, in quegli anni ’30 dell’Ottocento, e la scelta di presentarsi direttamente a Palazzo, non fossero anch’essi motivati dal desiderio di partecipare da vicino e da protagonista a quel rinnovamento civile e politico, che sembrava dischiudersi con l’avvento del nuovo sovrano.

E se, nonostante tutto - come ci informa Guido Oldrini - la parte più retriva della cultura napoletana riuscì a organizzare una vera e propria campagna diffamatoria contro la nomina del barone tropeano all’università partenopea, fino alla pubblicazione di un libello in cui si definiva la sua filosofia “perniciosissima, soporifera, mortale”; evidentemente fu proprio l’influenza di “tutte le colte persone”, come le ha definite Settembrini, e la volontà di mostrare moderazione da parte del governo dell’appena insediato Ferdinando II, che infine consentirono al filosofo calabrese di ottenere la desiderata cattedra - dove un tempo aveva insegnato Antonio Genovesi - e di poter dunque tornare nella capitale.   

Ferdinando II di Borbone in un ritratto giovanile

 E così nel 1831, a sessantuno anni, ma per chiara fama, Pasquale Galluppi fu nominato docente di Logica e Metafisica in quell’ateneo dove aveva studiato da ragazzo. E qui, a dir la verità, anche lo Studio fridericiano si prese una sua piccola rivincita. La storia è da raccontare e ci si permetterà una breve digressione nel tempo. Infatti, il filosofo non fu affatto il primo del suo parentado ad aver studiato nella città partenopea, e non fu neppure il primo dei Galluppi a cui fu chiesto di insegnare nell’università napoletana. Quasi un secolo e mezzo prima, infatti, nel 1696, arrivò a Napoli da Tropea il ventitreenne Francesco Galluppi, cultore appassionato di lettere, soprattutto quelle antiche. E frequentatore in città non solo dell’università, ma anche della splendida biblioteca privata di Giuseppe Valletta - all’epoca famosa in tutta Europa – e pure assiduo del suo prestigioso cenacolo, divenne in breve tempo tra i maggiori conoscitori della civiltà di Omero di quell’epoca, e perciò gli fu offerta la cattedra di Lingua e letteratura greca, da poco ripristinata nella stessa università partenopea proprio per iniziativa del Valletta. Ma egli - segno di quei tempi - la rifiutò. E non perché fosse di suo particolarmente benestante: nonostante appartenesse al patriziato tropeano, infatti, come il suo discendente del XIX secolo, anche Francesco Galluppi in realtà non era affatto ricco - come ci narra un suo biografo, in un manoscritto oggi conservato dalla Società Napoletana di Storia Patria – ma “era schivo a comparire in pubblico e … stimava l’insegnare agli altri pregiudizievole alla nobiltà dei suoi natali”. E dire che a quell’epoca nell’università fridericiana insegnava un certo Giovanbattista Vico…

 Ma torniamo ora, di nuovo, agli anni Trenta dell’Ottocento. Ottenuta così la nomina all’università, Pasquale Galluppi, presumibilmente dopo l’estate, andò ad abitare in uno splendido palazzo, che ancora fa angolo tra la centralissima via Toledo – voluta dall’omonimo viceré al tempo dell’imperatore Carlo V - e una delle trasversali che si inerpicano per i Quartieri spagnoli. Su quella via, e a Napoli in genere, come già aveva notato Goethe, “tutti sciamano per strada … dalla mattina alla sera senza preoccuparsi troppo… Tutto scorre in un disordine convulso, e però come ognuno sa trovare la sua strada, la sua meta! … Se i poeti locali lodano con iperboli straordinarie l’incanto di questi luoghi, non si può certo fargliene una colpa … Ma ciò che non si può raccontare, né descrivere, è lo splendore di una notte di luna piena, come l’abbiamo goduta noi, vagando per queste vie e queste piazze”. Forse anche a Galluppi la vita allora sarà sembrata radiosa e trasparente, come la luce del sud in un quadro della Scuola di Posillipo.

 

Gaetano Gigante (1770 - 1840) Via Toledo - il palazzo dove abitò Galluppi è il penultimo sulla destra

 A pochi passi da via Toledo, sul S. Carlo, fino a pochi anni prima aveva regnato Gioacchino Rossini, fantasioso inventore non solo di spericolate costruzioni musicali, ma anche, con un pasticciere del luogo, di arditi e gustosi cioccolatini; mentre Gaetano Donizetti, divenuto nel frattempo deus ex machina del Conservatorio e dello stesso teatro massimo, oltre alla Lucia di Lammermoor - seppure nato dalle parti di Berghem de süra – all’epoca di Galluppi andava componendo anche spiritose e languide canzoni napoletane, come Io te voglio bene assaj, scritta a quattro mani con un maestro ottico di piazza del Gesù, Raffaele Sacco. Quelli erano gli anni in cui a via Toledo si vedeva arrivare - proveniente da via S. Maria Apparente o da vico Pero dove abitò – anche Giacomo Leopardi, per la sua quotidiana inquieta passeggiata.

 La memorabile prolusione inaugurale ai corsi universitari di Pasquale Galluppi, di cui ci ha parlato Settembrini, tenuta nel novembre del 1831, costituì poi l’introduzione alle Lezioni di Logica e Metafisica, che il filosofo pubblicò nel 1834. Di quei primi anni napoletani, del pensatore tropeano abbiamo anche numerosi interventi su giornali e riviste, che allora in gran numero erano nate e si pubblicavano in città (come è stato notato, le oltre quaranta testate della stampa periodica partenopea collocavano, sotto questo profilo, Napoli al primo posto non solo in Italia ma, anche in Europa). In particolare, in una sua lettera al Cousin, Galluppi aveva lodato l’attività de Il Progresso, una rivista letteraria attraverso la quale Luigi Blanch  - “uomo di genio per la filosofia” come lo definì Galluppi, e che già prima della rivoluzione del ’20 aveva proposto l’istituzione di una rappresentanza nazionale per la discussione delle leggi, lo stesso Blanch che vedremo citato tra poco anche dal Gentile –  faceva conoscere nel regno le principali novità del pensiero europeo. Purtroppo introvabili sono invece gli scritti che il filosofo tropeano pubblicò sulla neonata Rivista di Filosofia, che un altro giovane che avrebbe fatto presto parlare di sé, Silvio Spaventa, aveva fondato in città. Ci rimane solo la prefazione al primo numero, il programma editoriale, scritto dal suo direttore giurista, perché citata da Benedetto Croce. Si faceva a volo d’uccello la storia della cultura italiana degli ultimi secoli, biasimando ogni forma di desolante ottimismo o di bolsa retorica accademica, “rifermata tutta su l’antichità”; e rivalutando all'opposto quella linea minoritaria, ma rivoluzionaria, del pensiero italiano, all’interno della quale non era difficile individuare l’origine stessa e universale della modernità: “quante scoperte … sulle cui ali avanza baldanzosa l’umanità, erano rimaste depositate entro le carte di vecchi cenobiti e prigionieri e perseguitati italiani, fin dalla mezza età!”. Occorreva dunque prendere esempio e riannodare le fila da quegli “uomini oscuri ed isolati, chiusi in luride prigioni,” che tuttavia “spirano confidenza nell’avvenire”; e rifondare così il pensiero critico nei confronti di un presente considerato insopportabile. In effige a quei primi numeri della Rivista di Filosofia era posto l’invito paolino: solliciti servare unitatem spiritus.

 

Università di Napoli Federico II – “Cortile delle Statue”, anche detto “del Salvatore”.

In un’aula qui prospiciente tenne lezione per quasi sedici anni Pasquale Galluppi.

 In realtà – come osserva ancora Benedetto Croce, inserendo nel panorama anche la riflessione galluppiana – quella fu un’epoca assai feconda per la cultura partenopea:  “già in Napoli s’era levato un Vincenzo Cuoco, critico delle astratte ideologie, teorico dello svolgimento storico dei popoli, assertore del costume paesano e della sua intrinseca virtù; … già il Galluppi nel 1819 aveva pubblicato il Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, precorrendo Rosmini e Gioberti; … il nuovo moto degli studi del secolo decimonono ritrovò il suo antenato indigeno nel Vico,  allora per la prima volta compreso e da allora letto, ristampato commentato e da tutti citato. Anche questa volta i napoletani non tennero solamente la parte di scolari, perché la nuova scuola storica italiana, la scuola neoguelfa, fu precipuamente promossa  dal napoletano Carlo Troya …; la filosofia si dimostrò più ardita presso i nostri pensatori che non nei Rosmini e nei Gioberti, e volle consapevolmente congiungersi al moto del pensiero europeo e liberamente proseguirlo, e la nuova letteratura, se non produsse in Napoli poeti come altrove in Italia, qui ebbe rinnovati i criteri del giudizio e l’interpretazione storica per opera del De Sanctis.” In quegli anni, lo stesso Galluppi cominciò a scrivere anche un trattato sistematico di Filosofia della volontà, nel quale, significativamente combinando le definizioni del Contra Faustum e del De Libero Arbitrio di Agostino, e partendo dunque dalla definizione della legge naturale come “la legge eterna o la volontà di Dio scritta nei nostri cuori, cioè nella nostra ragione”, elabora in realtà una nozione di doverosità che se non assume la struttura formalistica della ragion pratica kantiana (del resto, non a torto Galluppi sosteneva che  “Kant cercò di riedificare, nella Critica della ragion pratica, ciò che aveva distrutto nella Critica della ragion pura”), emerge tuttavia come fondamento di “regole assolute che non soffrono eccezioni”, intimamente soggettive e razionali, fondate su un principio di libertà e di giudizio. Poiché per il pensatore tropeano è la nostra coscienza, cioè “l’attenzione sul nostro me,” che “ci manifesta l’esistenza del potere attivo di volere e di non volere certi oggetti; il che vale quanto dire, che ci manifesta l’esistenza della libertà della nostra volontà”.  Dovere cui perciò è tenuto chiunque - e forse in parte discostandosi da una certa sua tesi giovanile che l’aveva visto accusato di giansenismo in Calabria – anche il pagano, l’agnostico o il non credente; poiché esso “è invariabile; la sua universalità è assoluta”: non solo un’etica utilitaristica, ma anche una morale disinteressata “eziandio a spese del tuo benessere, e della tua felicità,” “può stabilirsi colla sola considerazione dell’umana natura”. Allo stesso modo di come aveva proclamato nel suo discorso su Alfonso Maria de’ Liguori, a Tropea: “uomini, svegliatevi dal sonno de’ sensi, se questi non presentano che apparenze riguardo alla verità… Riflettete sulla natura spirituale ed indissolubile del vostro spirito; fissate la vostra felicità non mica nel tempo, ma nell’eternità”.

 Nel 1837 la città fu devastata da un’epidemia di colera, che tra migliaia di napoletani portò via anche il poeta della lenta ginestra e dell’infinito; poi sepolto, secondo alcuni, in una fossa comune, per evitare il contagio (anche se altri ritengono invece veritiera la vicenda  così come raccontata dal conte Ranieri, secondo il quale il corpo di Leopardi, da lui stesso occultato alle autorità sanitarie, riposerebbe oggi accanto a quella che dai tempi più antichi è considerata la tomba di Virgilio, nei pressi di Piedigrotta). Di quei terribili mesi, abbiamo le affettuose lettere inviate da Galluppi ai suoi familiari in Calabria, preoccupati che venisse anch’egli attaccato dal morbo: rispecchiano la personalità dell’autore, dominato da un senso di fierezza, ma anche di stoica accettazione della vita e del dolore, sublimata altresì in un’intensa spiritualità cristiana. In una di queste scriveva:

 “Siate tranquilli, miei cari figli, e deponete il timore. Voi già nella vostra immaginazione vedeste il Cholera come un mostro divoratore del genere umano: voi lo vedeste penetrare in questa gran Capitale, e desolarla: voi vedeste me, i vostri fratelli, le vostre sorelle, e tutti i parenti nostri già divorati dal terribile mostro. Ponete in tranquillità il vostro spirito: rasciugate le vostre lagrime: noi tutti siam vivi, e sani: la bontà del Signore ci ha preservati dal dente micidiale del mostro. Niuno de' miei amici e familiari è stato afferrato da' colpi del furore colerico. L'Università degli Studj nel solito giorno cinque di questo mese si è riaperta: i professori miei colleghi son tutti vivi e sani: il mio uditorio fu il primo giorno composto di circa cento uditori: il secondo ed il terzo giorno il numero ne fu raddoppiato. Siamo già nel secondo mese dell'invasione cholerica: nè io, nè i miei parenti, nè i miei amici abbiamo sofferto alcun male. Siate dunque tranquilli, vi replico. … Che ciascuno nello svegliarsi la mattina non lasci occupare l'anima sua dal fantasma del Cholera: ma che ciascuno domandi a sè stesso: Che cosa debbo io fare? ed ascoltando con tranquillità la risposta interiore, l'esegua con coraggio. … In ea vocatione in qua vocati estis manete. … Il morbo di cui parliamo ci spaventa, perchè ci reca la morte! Ma se la cosa è così, questo morbo è un nulla, esso non è perciò da temersi. Colla sua presenza la morte avviene, e colla sua lontananza o non esistenza, la morte avviene ugualmente; il morbo dunque di cui parliamo non è all'occhio della ragione quel mostro tanto spaventevole, che la fantasia ci dipinge. … Ma ognuno vorrebbe una risposta alle seguenti domande: mi colpirà, o non mi colpirà il morbo devastatore? se mi colpirà morrò io, o non morrò? Quanto dimorerà in Città questo terribile mostro? Quante vittime farà egli? Quali saranno le sue vittime? I miei parenti, i miei amici saranno fra queste vittime compresi? La impossibilità in cui siamo di rispondere a queste quistioni, non dee influire nella pratica de' nostri doveri, e de' mezzi per preservarci dal dente micidiale del mostro: queste quistioni non sono pratiche, ma teoretiche; Iddio non ha voluto, per nostro vantaggio, che potessimo risolverle. Egli val meglio essere sempre in diritto di sperare, ed in questa occasione come in molte altre la nostra ignoranza ci è utile.

Prudens futuri temporis exitum.

Caliginosa nocte premit Deus .

 Scampato il pericolo, l’anno successivo, ancora dedicata moralmente alla memoria del canonico Goffredo Fazzari, che insegnava filosofia a Tropea, Galluppi pubblicò a Napoli la seconda edizione delle Lettere Filosofiche, presso la tipografia del Tramater.   

Frontespizio della seconda edizione delle Lettere filosofiche – Napoli, 1838

Nel 1839, la Giunta di Pubblica istruzione dichiarò gli Elementi di Filosofia del barone tropeano “libro elementare per uso dei Collegi e Licei”; e così il testo galluppiano fu diffuso e conosciuto in tutto il regno, raggiungendo in breve tempo più edizioni. A quell’epoca Terenzio Mamiani lodava pubblicamente il pensatore calabrese, mentre già negli anni venti l’abate Antonio Rosmini gli aveva scritto a Tropea di avere nei suoi confronti una “obbligazione speciale”; e così lo collocò, nel suo Nuovo saggio sulle origini delle idee, tra i “pensatori di vaglia”.  

Antonio Rosmini Serbati

 Erano quelli gli anni in cui si poteva facilmente incontrare il nostro filosofo ai sontuosi ricevimenti organizzati dal duca di Montebello, ambasciatore di Francia a Napoli. Là, a palazzo Acton, vicino alla Marina, era invitata anche la migliore intelligenza partenopea, e non solo esclusivamente l’aristocrazia del sangue, come avveniva rigorosamente alle feste a corte. Nel 1838 l’Accademia di Francia nominò Galluppi suo corrispondente straniero; e tre anni dopo, su proposta dell’intellettuale ministro Francois P. G. Guizot, il re Luigi Filippo lo insignì della Legion d’Onore. Per l’occasione il pensatore calabrese scrisse le Considerazioni filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto; mentre nel 1844 a Parigi fu pubblicata anche la traduzione delle sue Lettere filosofiche. A quei tempi anche Ferdinando II - non volendo sembrare da meno di quel suo bislacco zio, roi-citoyen et ami sincère des Institutions constitutionelles – concesse a Galluppi una decorazione, quella dell’Ordine di Francesco I, da lui stesso creata.

 

Pasquale Galluppi in un ritratto con la Legion d’Onore e la decorazione dell’Ordine di Francesco I

 Per quanto riguarda una considerazione generale sull’insegnamento galluppiano a Napoli, se nel suo saggio su Bertrando Spaventa, il giovane Giovanni Gentile – ignaro di quello che sarebbe stato il suo destino – scriveva che “Galluppi, il filosofo ufficiale, raccoglieva intorno a sé i giovani posati e obbedienti, quali Enrico Pessina, P.E. Tulelli, Antonio Raccioppi, e a capo di tutti, Luigi Palmieri”; venti anni più tardi, in maniera più meditata, all’interno della ricostruzione del senso non solo filosofico-politico, ma anche spirituale e generazionale, della nascita sulla baia di Partenope dell’Idealismo italiano, meglio ricollocava all’interno di quella vicenda la stessa dottrina del filosofo di Tropea, confermandoci anche, col breve tratteggio della figura non solo teorica di Galluppi, il bel ritratto umano lasciatoci da Luigi Settembrini:

 “Un dotto e venerato amico di Silvio Spaventa… , Luigi Blanch, in un suo articolo del 1835 ricordava di avere egli cercato fin dal ’21 di determinare ‘il carattere della filosofia napoletana, deducendo dal carattere generale delle dottrine e dalle tendenze de’ suoi cultori’. E questo carattere, secondo lui, sarebbe stato l’indipendenza intellettuale. … Questo carattere profondamente idealistico è l’impronta singolare di tutta la cultura napoletana degli anni che precedettero la rivoluzione del 1848. L’idealismo … era (quello che dev’essere quand’è filosofia vivente) una fede, un atteggiamento effettivo dell’anima. … Tutti quei giovani … erano idealisti nati, come è stato detto del Fichte, perché vivevano unicamente del mondo che si facevano dentro essi stessi, coll’entusiastica operosità della loro intelligenza e con le ardenti ispirazioni del loro cuore. Ignari della vita esteriore, che, allo scoppiare del conflitto latente, li doveva schiacciare o bandire da Napoli o chiuderli nel più duro silenzio, essi realizzavano assai più profondamente del Protestante tedesco, instauratore, secondo l’Hegel, del mondo moderno come realtà dello spirito nella sua libertà, quel razionalismo intimamente religioso, che s’è già indicato come la via sulla quale soltanto è possibile imbattersi nella dottrina hegeliana.

Col Galluppi siamo sulla soglia di questo razionalismo; ma non vi siamo ancora entrati. Tutta la sua filosofia (scienza del pensiero) si esaurisce nella analisi di una realtà affatto ideale, che è l’attività del me, come egli diceva. Né la tocca nessuna cura del mondo, che non negato, rimane fuori dal pensiero. Con la sua dottrina della soggettività dei rapporti, con quella sua teoria del non-me come modificazione del me che è in quanto si sente, e di una sensazione equivalente all’appercezione originaria di Kant, con quella sua risoluta ed aperta accettazione della sintesi a priori rispetto allo spirito pratico, col conseguente superamento di ogni forma di eudemonismo e di eteronomia, il Galluppi aveva senz’alcun dubbio, modestamente ma vigorosamente, annunziato una nuova era per la filosofia italiana. Il mondo del Galluppi è un mondo finito, umano in quanto tale; non è il mondo, senz’altro; ma per suo merito rimaneva acquisito di quello bisogna contentarsi, e di esso vivere. La sua famosa modestia, la sua lodata riservatezza è coscienza di un limite invalicabile, ma anche pacata rassegnazione e virile riconoscimento della verità, dell’essere, del mondo che è di qua dal limite, come la nostra verità, il nostro essere e il nostro mondo. Quando si saprà scorgere che quella barriera è nell’oggetto in quanto oggetto, non nel soggetto che pone l’oggetto, e però il nostro mondo sarà pervaso dal senso profondo della sua assolutezza , ond’esso è proprio lo stesso mondo, l’unico che ci sia, allora dentro di sé lo spirito, filosofando, ravviserà Dio e si troverà sulla via del razionalismo religioso.

Questa elevazione del valore del nostro mondo per la spinta dello stesso Galluppi avveniva contemporaneamente nell’Italia superiore per opera del Rosmini e del Gioberti, in una forma oscura e non mai perfettamente consapevole… A Napoli invece essa trovava un ambiente, come fu detto dallo Spaventa, di schiettezza e di sincerità, che rese possibile un ripensamento dell’idealismo assoluto nella sua forma più pura, appena la critica del Colecchi al Galluppi, l’eclettismo del Cousin, le traduzioni ed esposizioni francesi di Fichte, Schelling ed Hegel, additarono un più alto segno di quello a cui s’era fermato il vecchio filosofo calabrese”.  

Giovanni Gentile

Infatti, questo descritto dal Gentile fu sempre il programma filosofico, e non solo la dimensione esistenziale, dello stesso pensatore di Tropea. Come scrisse ad Antonio Rosmini: “io non son di tanto merito fornito da poter cambiare direzione al pensar filosofico degl’Italiani: nulla di meno son convinto del dovere di faticare per la difesa della verità”.

 E tuttavia, conclusasi poi nel XX secolo, come era iniziata - colla fede nella libertà professata in interiore homine dalla lezione solitaria del Croce, in una nuova epoca di oppressione politica – quella parabola della filosofia italiana che con Bertrando Spaventa nel secolo precedente aveva preso a Napoli il proprio avvio, e della quale lo stesso Giovanni Gentile è stato uno degli esiti più alti, contraddittori, tragici; lo stesso magistero di Pasquale Galluppi sembra riemergere sotto una nuova luce. Ovvero non solo come lo sistematizza in questa sua ricostruzione il filosofo di Castelvetrano - seguendo l’interpretazione della storiografia idealistica di quella via italiana alla metafisica della mente umana, che anche per Croce e De Ruggiero scopre le sue radici fin ne La Nuova Scienza di Giovanbattista Vico – come figura prodromica nei confronti della prima generazione degli hegeliani italiani, avendo spalancato porte e finestre della cultura nazionale alle correnti contemporanee del pensiero europeo; ma anche, o forse ancor più, come ultima frontiera della generazione a lui stesso precedente degli Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Pietro Giannone, Antonio Jerocades, Domenico e Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano.

Intellettuale formatosi tra i primi anni del regno di Ferdinando IV e la rivoluzione del ’99, Pasquale Galluppi sembra infatti rimasto legato tutta la vita - nonostante le sconfitte politiche e militari, le repressioni poliziesche, e finanche gli eccidi subiti – alla coda di quella cometa di pensieri, riflessioni, idee, speranze, sogni, volata sul cielo del Regno di Napoli a partire dall’epoca del saggio re Carlo III. Alla distanza attuale, cioè, la stessa filosofia galluppiana come scienza di una “realtà affatto ideale”- come la descrive il Gentile - e quindi segnata da motivi spiritualistici e di centralità della sfera della coscienza, pur trovando i suoi referenti più naturali nella letteratura patristica, soprattutto Agostino, e su quella stessa traccia soggettivistico-psicologistica del pensiero filosofico, anche in Cartesio, Rousseau e certe coeve tematiche del primo Romanticismo non solo italiano; in realtà, per tesi, argomentazioni, autori preferiti e finanche per molti degli avversari teorici prescelti, appare assai più, d’altro canto, come l’esito estremo di quella stessa temperie culturale che se nel resto d’Europa aveva trovato il suo compimento nelle Critiche e nelle sublimi aporie della speculazione del pensatore di Koenisberg, a Napoli aveva visto fiorire quello che Raffaele La Capria ha chiamato l’Illuminismo del cuore dei meridionali italiani. Del resto, in altre sue opere, come ultimo rappresentante di quella tradizione che si inaugura col Genovesi, lo indica lo stesso Gentile; mentre Giuseppe Tortora ha recentemente individuato proprio nell’argomentazione principale della critica di Genovesi a Hobbes, l’origine della  stessa gnoseologia galluppiana della coscienza.   

                

                      Immanuel Kant                    Antonio Genovesi

 In questo contesto si comprende anche il costante riferimento del Galluppi, pure spesso antagonista, nei confronti del criticismo kantiano: tanto che in un non incontrastato giudizio, Bertrando Spaventa ebbe a dire che il filosofo tropeano fu un “kantista suo malgrado … e quasi senza saperlo”; poiché “pone la unità nuova nella forma immediata, cioè come sensibilità”, e tuttavia “non è Locke, non è l’antico empirista, ma il nuovo. Questo empirismo che contiene in sé la nuova unità, è il contrario dell’empirismo astratto”. E allo stesso modo, anche Guido De Ruggiero scrisse che “la filosofia del Galluppi, che all’apparenza è puro empirismo, ma in quanto distingue la sensazione dalla coscienza della sensazione, e pone questa a fondamento di quella, è già virtualmente kantismo”. In realtà “il suo punto di riferimento è Kant: rispetto a Kant esamina e valuta ciò che segue, ma soprattutto ciò che precede, risalendo, per due percorsi concettualmente distinti, fino a Cartesio da una parte, e a Locke, dall’altra; tutta la storia del pensiero precedente a questi due grandi teorizzatori è da considerarsi in termini di archeologia filosofica”, come ha scritto ai nostri giorni ancora Giuseppe Tortora.

Da questa particolare posizione intellettuale ed esistenziale verosimilmente deriva anche il carattere prevalentemente gnoseologico della riflessione galluppiana: in una gnoseologia che si manifesta innanzitutto come critica filosofica dell’ontologia, e per la quale perciò, come scrisse ancora al Rosmini, le conoscenze sono solo “modificazioni dell’anima nostra: … tutte oggettivamente, in quanto cioè modi del nostro essere, contingenti”; mentre ogni altra conoscenza necessaria e di necessità assoluta è solo una “legge logica del pensiero umano, e sarebbe un errore il confonderla con una necessità metafisica”. Come aveva anche spiegato nelle Lettere filosofiche: “gli ontologi hanno preteso di darci la scienza degli esseri, ma eglino doveano in primo luogo cercare su qual fondamento poteva essere appoggiata la scienza dell’uomo; egli doveano sentire l’importanza di questa massima: conosci te stesso, quindi … doveano fare l’analisi della facoltà dello spirito umano, e spiegare in seguito l’origine e la generazione delle idee”. Per il barone tropeano era sempre stato chiaro infatti che “tutte le verità, che si versano immediatamente sul nostro essere riposano immediatamente su la coscienza” e “il filosofo dee studiarsi di dipendere il meno che può dall’altrui autorità; egli osserverà da se stesso tutti i fatti, che può osservare; egli poggerà le illazioni che da’ fatti si deducono, non sull’altrui autorità; ma su l’esattezza del raziocinio. Nella filosofia dello spirito umano, ciascuno può trovare i fatti principali in se stesso”.

In realtà, come scrive Guido Oldrini, in quegli anni il coscienzialismo ingaggia “una lotta a fondo, cauta ma serrata e tenace, contro l’appello al criterio di evidenza logica dell’autorità, tanto spesso ricorrente… nella filosofia di scuola della Restaurazione”. E da quel suo orizzonte di concetti, il filosofo tropeano poteva così dipanare come in un unico paradigma tanto la sua gnoseologia fondata sulla centralità della esperienza individuale di coscienza, quanto la tutela dei diritti naturali soggettivi di libertà, e la stessa critica filosofica dell’autorità: costitutivamente, quella della tradizione del pensiero ontologico; a quei tempi solo implicitamente, invece, il dispotismo politico. Osservò infatti Rodolfo Mondolfo: “nel liberalismo politico affermato dal Galluppi veniva a sfociare e trovar la sua applicazione pratica la teoria dell’attività dello spirito e della libertà del volere, da lui sostenuta nel campo della gnoseologia e dell’etica”.

 Nei primi anni ’40, d’incanto cessò la pur flebile moderazione mostrata precedentemente dal governo di Ferdinando II: l’istruzione venne riportata all’ordine, ed affidata, con un decreto del gennaio 1843, alla direzione di ciascun vescovo, diocesi per diocesi. Come scrive Oldrini, “un’ondata repressiva di violenza mai vista si abbatte sulla cultura”: vengono arrestati Carlo Poerio e Francesco Paolo Bozzelli, colui che sarebbe divenuto l’autore principale della caduca costituzione napoletana del ‘48; la scuola privata di filosofia di Bertrando Spaventa è soppressa; mentre il vecchio Ottavio Colecchi - l’altro grande maestro di pensiero di quegli anni a Napoli, di cui era stato allievo lo stesso Spaventa - non riesce a pubblicare le sue ultime Quistioni. Anche il nostro barone, solitamente chiamato a dare il suo parere al governo sulla pubblicazione degli scritti filosofici nel regno, dopo aver concesso nel ’42 il suo placet per l’edizione napoletana delle Opere di Rosmini, viene ammonito dalle autorità borboniche, a causa dell’autorizzazione alla pubblicazione del Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto di Heinrich Ahrens. Questi, un allievo del Krause, aveva rappresentato il diritto in senso deontologico, come espressione di libertà e volontà che formano la ragione giuridica come dovere di attuazione dei fini morali di ciascun individuo.

Luigi Settembrini, intanto, era già stato arrestato nel 1839, per l’organizzazione della Giovane Italia in Calabria. 

Vincenzo Gioberti

 In quegli anni, mentre - come nota il Croce - Bertrando Spaventa “nella filosofia del Gioberti… finì col vedere ‘riprodotto, ma perfezionato e risoluto in un principio più alto, il realismo di Bruno e fondata, d’altra parte, la nuova metafisica desiderata da Vico, e soddisfatte le esigenze religiose di Campanella e di Galluppi e di Rosmini”; e proprio Vincenzo Gioberti, nel suo Primato morale e civile degli Italiani, aveva definito il filosofo tropeano “il Reid d’Italia” – paragonandolo così al caposcuola scozzese critico dello scetticismo di Hume - Galluppi decise di ritirarsi dall’insegnamento universitario, ritenendosi “già vecchio”, come ebbe a confidare ad uno dei  suoi allievi migliori, Ruggero Bonghi. E tormentato dalle malattie, prostrato anche da disgrazie familiari intersecatesi con le vicende politiche (uno dei suoi figli, ufficiale borbonico, era rimasto ucciso durante un tentativo insurrezionale in Calabria), ritornò agli studi religiosi, che lo avevano visto giovane allievo di teologia di quel Francesco Conforti, che egli spesso, come abbiamo visto, amava citare. Francesco Conforti, “sacerdote e uomo dottissimo”, come ci ricorda il Colletta, “scrittore ardito contro le pretensioni di Roma”, ministro dell’Interno e legislatore nella Repubblica del ’99, che prima che venisse portato al patibolo nel dicembre di quell’anno, “si affaticò dì e notte” in uno scritto che servisse “a vendicare dal sacerdozio le ragioni dell’impero”, nel momento del trionfo dell’alleanza sanfedista tra trono e altare.

Forse, a quei tempi, Galluppi non comprese o non volle accettare quella che Antonio Ghirelli ha chiamato la “fuga in Italia” dell’intelligenza meridionale dopo le delusioni dei primi decenni del XIX secolo, e dunque l’ineluttabilità del carattere piemontese che cominciava a prendere anche a Napoli il Risorgimento nazionale. Rinchiusosi nell’isolamento dei suoi studi, tornò invece ancora una volta sul quel grumo teorico composto da ragione naturale e verità, su cui si sono interrogati da sempre tutti i teorici e teologi anche del diritto e della morale; e dunque a quel suo problematico pessimismo antropologico, che pure in gioventù gli era costato una specie di processo ecclesiastico in Calabria, come si è detto, con l’accusa di giansenismo.

In verità, la pur criticata antinomia kantiana tra ragion pura e mondo della pratica si era presentata costantemente anche al filosofo tropeano - come egli stesso riconobbe nella prima delle sue lettere ad Antonio Rosmini - come frattura non rimediabile razionalmente tra natura, ragione umana, verità e salvezza:  “limite invalicabile” di questo “mondo che è di qua dal limite”, “finito, umano in quanto tale”, come l’ha chiaramente riconosciuta Giovanni Gentile. Per questo poco convincente non poteva che sembrargli il superamento di quel nodo attraverso la dialettica hegeliana: quella linea d’ombra e di demarcazione in realtà rimaneva lì, immutata, in tutta la sua cogenza di interrogativo esistenziale o religioso ineludibile, ma allo stesso tempo logicamente e razionalmente insolubile. E del resto, cose non diverse a quei tempi - seppure da altra prospettiva - aveva pensato anche Giacomo Leopardi, che insofferente nei confronti del nascente idealismo o della teologia regalista, dominanti le opposte sponde della cultura napoletana, aveva confessato il suo rifiuto morale di “ogni consolazione e ogn’inganno puerile” sul “deserto della vita”, in nome di “una filosofia dolorosa, ma vera”.

E così, di fronte a certe interpretazioni hegeliane - ricorda Giovanni Gentile – il nostro pensatore era solito in quegli anni, non a torto, affermare: “nel secolo XVIII, sotto le ispirazioni francesi, bisognava proceder negando alla svelta in fatto di religione per essere uno spirito forte; ora poi in grazia della filosofia tedesca bisogna sforzare il sopraintelligibile, perché si trasformi in puro intelligibile”: quasi ricalcando a suo modo Gaetano Filangieri, che diceva di sé di aver fatto spesso la figura del bigotto tra gli empi, e dell’empio tra i bigotti. Già nel suo Saggio filosofico, del resto, il barone aveva scritto: “la ragione pone evidentemente la realtà dell’assoluto; ma qui giunta dee arrestarsi, poiché non vi ha cosa che sia spiegabile in Dio”. Come osserva Oldrini citando lo stesso Galluppi, in realtà per il pensatore calabrese tutti i sistemi trascendentali e razionalistici non possono che “rompersi comunque sempre inevitabilmente contro lo stesso scoglio: la rocca immobile della coscienza”: alludendo qui il nostro filosofo, con la consueta fierezza intellettuale, anche alla sua stessa speculazione, forse metaforicamente identificata con quel dirupo vertiginoso sul quale s’affaccia, luminosa e superba, quasi sfidando la gravità per guardare il mare, la sua amata Tropea.

 

Louis-Jean Desprez, Vue de la Ville e du Château de Tropea – Londra, Victoria and Albert Museum

 E in effetti, come a mezz’aria tra i cieli della metafisica e il senso della terra, sospesa dinnanzi agli interrogativi dell’orizzonte, appare tutta la malinconica, inattuale, talora scissa e solipsistica, ma sempre sfavillante, “scienza del penziere” - come egli amava definire la filosofia – dell’ultimo degli illuministi meridionali: che volle sempre ostinatamente rimanere se stesso. Ritornando alle parole del Gentile e allo stesso ritratto lasciatoci da Luigi Settembrini, non è poi molto difficile immaginarlo com’era, negli ultimi anni di insegnamento, in quella sua aula prospiciente il Cortile del Salvatore: “appollaiato sulla cattedra” nella sua “lodata riservatezza”; ma anche con la “pacata rassegnazione” e ormai il disincantato distacco - da vecchio e sconfitto barone giacobino, forse pure un po’ giansenista - verso tutte le illusioni di questo mondo, consapevole del limite prescritto ad ogni nostra verità, e alla stessa storia ed esistenza umana. Poiché caliginosa nocte premit Deus.

 In quegli ultimi tempi, il vecchio pensatore, assecondando anche la sua vena di didatta e di storiografo, progettò la stesura di una imponente Storia della Filosofia, da realizzarsi in dodici volumi, che avrebbe dovuto rappresentare la sua summa di tutto il pensiero occidentale. Ma come la stessa Filosofia della volontà, anche la monumentale Storia della filosofia rimase incompiuta, fu pubblicato solo il primo volume: perché Pasquale Galluppi, in quella sua casa napoletana ad angolo tra via Toledo e la strada che oggi porta il suo nome, morì, il 13 dicembre del 1846.

L’elogio funebre fu pronunziato, tra gli altri, dal sedicenne Enrico Pessina, il suo allievo geniale e prediletto, ricordato anche dal Gentile, come si è visto, nel primo degli scritti che abbiamo qui citato. La commemorazione in Calabria avvenne nella Cattedrale di Tropea, il 14 febbraio del 1847.

 

Tropea - Monumento a Pasquale Galluppi ( foto Di Bella)

 Di quei giovani che avevano fatto calca intorno al filosofo calabrese dall’epoca della sua inauguratio accademica - come ci ha raccontato Settembrini - molti sarebbero finiti ben presto sotto il maglio della repressione borbonica, scatenatasi definitivamente dopo il 1848. Tra questi, lo stesso Enrico Pessina che, ormai giovanissimo avvocato, per aver difeso dinnanzi alla Gran Corte Criminale di Napoli dei perseguitati politici, una volta chiuso il processo, fu anch’egli arrestato e rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente, dove fu detenuto per quasi due anni. Successivamente esiliato, riparò a Bologna, e all’ex enfant prodige dell’università napoletana fu subito affidata la cattedra di Diritto penale, poi anche quella di Diritto costituzionale nell’ateneo felsineo. In quegli anni aveva sposato Giulia, figlia amatissima di Luigi Settembrini. Tornato a Napoli nel 1860, l’anno successivo fu chiamato alla cattedra di Diritto e procedura penale nell’università partenopea -  dove un secolo prima aveva insegnato Francesco Mario Pagano – che egli tenne per oltre cinquant’anni. Relatore nella commissione che uniformò i codici penali dopo l’Unità, ministro di Grazia e Giustizia dal 1884, filosofo e storico degli ordinamenti giuridici, è considerato uno dei massimi teorici del diritto penale di ogni tempo, avendo portato a completa definizione quella dottrina retributiva della pena, risalente a Francesco Carrara - necessario corollario dell’uguaglianza dei cittadini “in faccia alla legge”, come diceva Pasquale Galluppi, e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, di cui Pessina fu tra i più fermi sostenitori - su cui si è fondata la migliore cultura giuridica italiana.  

Busto di Enrico Pessina nel Tribunale di Napoli

Ruggero Bonghi, presentatore con Carlo Poerio, Mariano D'Ayala e Francesco Paolo Ruggiero di una delle petizioni con le quali nel gennaio del ’48 si chiese a Ferdinando II di concedere la Costituzione; dopo la sconfitta si rifugiò in Toscana, dove fu però espulso per la pubblicazione di scritti antiborbonici. Nel 1858 rifiutò la cattedra di Lingua e letteratura greca nell’università di Pavia, perché ancora sottoposta all’autorità austriaca; cattedra che accettò poi quando la città diventò italiana. Docente di Lingua e letteratura latina successivamente all’università di Firenze, poi di Storia antica in quella di Roma, fondatore a Torino del quotidiano La Stampa, più volte eletto deputato, fu il relatore in parlamento della legge sulle Guarentigie, che sanzionava il principio cavouriano della “libera Chiesa in libero Stato”. Ministro dell’Istruzione dal 1874, promosse la riforma dell’insegnamento universitario e fondò la Biblioteca Nazionale di Roma. Amico del Manzoni, polemista e critico letterario, ne propugnò lo stile come fondamento della letteratura della nuova Italia. Scrisse anche una Storia di Roma e una Vita di Gesù.

Ruggero Bonghi

 Luigi Settembrini - autore della Protesta del popolo delle Due Sicilie, vero e proprio manifesto politico della rivoluzione del 1848 - con Carlo Poerio, Silvio Spaventa e gli altri capi del liberalismo napoletano, l’anno successivo fu di nuovo anch’egli arrestato, processato e stavolta condannato a morte. Commutata dopo qualche tempo la pena nell’ergastolo – anche a causa delle proteste internazionali, guidate dallo statista inglese William E. Gladstone – scontato nel penitenziario di S. Stefano nella stessa cella con Silvio Spaventa; e con lo stesso Spaventa infine esule a Londra dal 1859, tornò a Napoli dopo l’impresa dei Mille. E nel 1862 fu chiamato alla cattedra di Letteratura italiana nell’università di Federico II, che si andava intanto rinnovando con la guida autorevole di Francesco De Sanctis. Nominato senatore del Regno d’Italia nel 1873, morì tre anni dopo.

Soltanto postume furono pubblicate le Ricordanze della mia Vita, con le quali abbiamo aperto queste pagine galluppiane: oggi considerato un classico della letteratura autobiografica in lingua italiana. Racconto dell’esistenza romantica, avventurosa e drammatica di un intellettuale rivoluzionario del XIX secolo, figlio a sua volta di un difensore della Repubblica Napoletana del ’99. Affresco di quell’epoca segnata dal dispotismo e dalla reazione politica; ma nella quale un pugno di uomini liberi, talora isolati, spesso perseguitati, seppero resistere e conquistare il futuro, all’ombra della migliore cultura sorta sulle sponde dello sterminator Vesevo. E senza mai rinunciare, inoltre, Settembrini – non solo nelle affettuose righe poi dedicate all’antico maestro di Tropea – a quel suo ironico e bonario “stile personale”, “tutto sentimento”, come lo descrisse lo stesso De Sanctis: “quasi che il cervello fosse calato nel suo cuore, e avesse quei battiti, quegli amori, quelle ire”.

       

Luigi Settembrini – Roma, Museo Nazionale del Risorgimento

 E così, alla fine, tutta questa vicenda - che pure a prima vista sembra assai ottocentesca o comunque provenire da un passato lontano - di Pasquale Galluppi, barone tropeano di Coccorino, filosofo della libertà e dell’uguaglianza, della sua patria e della coscienza, e di questi suoi tre studenti napoletani che scommisero la loro sorte sulla speranza del Risorgimento italiano, in realtà rimanda anch’essa a quello che non di rado appare come il leit motiv nella storia del Mezzogiorno o dell’Italia in generale, e talvolta persino in quella dell’umanità. Più o meno come scrisse William Morris, l’autore di News of nowhere : “gli uomini lottano e perdono la loro battaglia, ma ciò per cui avevano combattuto verrà alla luce lo stesso, nonostante la loro sconfitta, anche se sarà altra cosa da ciò che essi credevano. E allora ancora altri uomini cominceranno a battersi per ciò che i primi chiamavano con un altro nome.”

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L. Settembrini, Ricordanze della mia Vita, Firenze 1879-80.

B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, III ed. a cura di G. Gentile, Bari 1926.

G. Tortora, C. A. Helvétius nella considerazione critica di P. Galluppi, In AA.VV., La tradizione illuministica in Italia, Atti del Convegno di Studi della Società Filosofica Siciliana, Palermo 14-16 novembre 1985, Palermo 1986; P. Galluppi e J. J. Rousseau in AA.VV., Cultura romantica e territorio nella Calabria dell’Ottocento, Atti del Convegno di Studi, Cosenza-Catanzaro, 9-12 aprile 1986, Cosenza 1987; P. Galluppi e P.H. d’Holbach, in “Studi Galluppiani” e “Convegno galluppiano”, Tropea 28-30 maggio 1987, Cosenza 1991; Temi hobbesiani nelle opere di Galluppi, in Discorsi - Ricerche di Storia della filosofia, Anno IX, 1989, fasc. 2, pp. 282-306, Anno X, 1990, fasc. 1, pp. 37-66;  ai quali tutti si rimanda per una maggiore comprensione del pensiero galluppiano.

D. F. Valletta, Vita di don Francesco Galluppo, Società Napoletana di Storia Patria, mss. XXII, c.12, f.99, cit. in A. Cirillo, Napoli ai tempi di Giovanbattista Vico, Napoli 2000.

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Molte opere di Galluppi sono consultabili presso il sito curato dal Prof. Giuseppe Tortora dell’Università di Napoli Federico II all’indirizzo: http://utenti.lycos.it/tortora/. Un’ampia ricostruzione del pensiero e della figura di Pasquale Galluppi si può altresì trovare nelle pagine di Tropea Magazine. (http://web.genie.it/utenti/t/tropeamagazine/galluppi/index.html). Le stampe di Tropea sono tratte dal sito del Sistema bibliotecario vibonese (www.sbvibonese.it): Vedute della collezione Pacetti

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