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Giuseppe Lo Cane Filosofo
Giuseppe Lo Cane "una vita dedicata allo studio della Filosofia" 23.10.1925 - 15.12.2003 |
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da un ex alunno ... Omaggio a Giuseppe Lo Cane "QUELLO CHE NON TI HO DETTO" di Enzo Taccone Peppino carissimo, avrei voluto vederti nei cruciali momenti della tua ultima stagione per starti vicino e testimoniarti il mio affetto e la mia stima ma la tua riservatezza, il tuo pudore, la tua dignità me l’hanno impedito. Non ho provato ad insistere con la tua famiglia che con tanto amore e devozione ti hanno curato facendoti sentire meno solo perché ho voluto rispettare la tua decisione trovandola giusta, forte e responsabile. So infatti che hai sopportato le sofferenze con una grande compostezza e forza d’animo e con la tua incrollabile fede. La nostra amicizia risale al periodo in cui sei stato il mio Professore di Storia e Filosofia ed eri anche il Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica. Di quel periodo ricordo con tenerezza l’impegno che mettevi nell’insegnamento, nei convegni diocesani e per preparare e dirigere il coro di noi ragazzi. Da allora con tutte le difficoltà che la lontananza imponeva, abbiamo mantenuto un legame solido che si è rinsaldato in questi ultimi anni quando abbiamo condiviso le iniziative dell’Associazione Culturale ex Studenti Terza Liceo Classico 1962-63. So che spesso chiedevi a mia mamma notizie aggiornate sulla mia vita. Ti ho sempre stimato come persona giusta e impegnata e come uomo di cultura. Mi stupivi per la tua integrità morale, per la tua capacità di reggere qualsiasi situazione, interpretando, nella maniera più corretta possibile, i tanti momenti del nostro percorso. Quando svolgevi il ruolo di moderatore notavo come alla fine, sbirciando tra i tuoi appunti, riassumevi i vari interventi e le varie posizioni. Al di là delle retoriche scontate sono fermamente convinto che sei stato una persona semplice ed eccezionale. Non ti ho mai visto in collera con qualcuno. Sei sempre stato equilibrato, buono, innamorato di Dio, di Don Mottola, della tua scelta di diventare Oblato del Sacro Cuore, di Pasquale Galluppi, dell’Amicizia, di tutti quei valori che oggi sembrano accantonati ed irraggiungibili perché spirituali e bisognosi di grande tenacia. Al pensare che non sei più tra noi mi sto facendo forza per non commuovermi. So che tu non l’avresti voluto. Permettimi però di dirti che sono felice di essere stato tuo Amico. Sono certo che dal tuo nuovo mondo, vicino all’incanto di Dio, ci aiuterai a trovare la pace ed il giusto senso da dare al nostro essere uomini in cammino verso la Luce. Gasponi 15.12.2003 |
Prof. Giuseppe LO CANE Curriculum Giuseppe Lo Cane, nato il 23.10.1925 a Drapia in Prov. di Catanzaro, (ora Provincia di Vibo Valentia), ha conseguito la laurea in Filosofia presso l'Università di Messina il 19.12.1950. Ha insegnato Storia e Filosofia nei Licei Statali. Ha tenuto seminari di studio sul pensiero filosofico calabrese presso l'Istituto Teologico Calabro di Catanzaro. E' docente di Storia dei Sistemi Filosofici presso l'Istituto di Scienze Religiose di Vibo Valentia. 1) Ha recensito per quotidiani e riviste scritti di carattere letterario, storico e filosofico, tra cui Opere di Salvatore Satta, di Augusto Del Noce, di Jules Monnerot e di Carl Schmitt. Ha pubblicato Saggi sulle riviste "Teoresi" (Messina), "Justitia" (Roma), "Civitas" (Genova), "Intervento" (Roma), rispettivamente sul pensiero di Bertand de Jouvenelle, di Antonio Rosmini, di Augusto Del Noce, di Carl Schmitt. 2) E' intervenuto a Convegni e Congressi Filosofici, sui seguenti argomenti: - "I fondamenti della rosminiana filosofia del diritto nell'analisi di Felice Battaglia" (pp.8), in "Dal Filosofo all'Uomo", Atti del Convegno di studi su Felice Battaglia, a cura di Giusepepe Chiofalo, Arti Grafiche Edizioni, 1991, Palmi. - "Il senso di una tradizione metodologico-scientifica: Pasquale Galluppi, filosofo della matematica" (pp. 12), in "Dalla tradizione pitagorica al futuro della cultura e della scienza in Calabria", Atti del Convegno di Tropea del 12-13 Giugno 1997 - a cura di Pietro De Leo - , promosso dall'Istituto Internazionale di Epistemologia "La Magna Grecia"; Rubbettino, 1998, Soveria Mannelli. - "Analisi e sintesi nel pensiero galluppiano" (pp. 23), in "Studi Galluppiani", Atti del Convegno Galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, Edizioni Brenner, 1991, Cosenza. 3) Ha pubblicato: - "Il soggetto storico della rivoluzione" ( pp. 158),Milano, Giuffè, 1983. - "Francesco Fiorentino e la tradizione del pensiero politico-filosofico del Meridione" (pp.198), Parallelo 38, Reggio Cal., 1985. - Pasquale Galluppi. "La Filosofia della Matematica"; introduzione di pp. 7 (pp. 408), Centro Studi Galluppiani - Edizioni Mapograf, Tropea-Vibo Valentia, 1995. - Pasquale Galluppi. "Elementi di Filosofia - vol 1°"; saggio introduttivo di pp. XLIV (pp.XLIV-356); Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001. Gasponi, 24 Settembre 2002
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PASQUALE GALLUPPI La Filosofia dell'Esperienza di Giuseppe Lo Cane Nel dialogo di Platone il Convito , Socrate dal suo discepolo Alcibiade viene paragonato ad un sileno. Era questo una specie di custodia scolpita e sgraziata all'esterno, dentro cui erano però custodite immagini di divinità. Ma, rileva il discepolo: "Quanta temperanza, quant'armonia dentro di lui"(Convito, 216, d, 10). Questa immagine del sileno potrebbe bene riferirsi anche alla figura del Galluppi, non a motivo di una sua bruttezza esteriore che non c'era. Il suo discepolo Settembrini ce lo descrive come appollaiato sull'alta cattedra universitaria di fronte ai giovani che facevano ressa per ascoltare le sue lezioni, che egli dettava con l'accento tagliente del dialetto calabrese. Ciò faceva dire ai maldicenti che egli era mezzo barbaro nel parlare, ma in quel parlare era una forza di verità nuova, ma l'ingegno era grande, ed il cuore quanto l'ingegno. Pasquale Galluppi nasceva a Tropea il 2 aprile 1770. "Dopo lo studio della lingua latina, secondo il metodo di quel tempo in Tropea, nell'età di tredici anni - come egli scrive nella sua breve Autobiografia del 1822 - (andò) ad apprendere gli elementi della filosofia e della matematica alla scuola di don Giuseppe Ruffa, che in quel tempo insegnava queste scienze con successo in Tropea". All'età di diciotto anni fu mandato dal padre a Napoli per prepararsi alla lucrosa professione di avvocato. Egli deludendo però le attese paterne preferì darsi allo studio della Bibbia, della Storia antica, della Storia ecclesiastica e dei Santi Padri dei primi secoli, attaccandosi specialmente a S. Agostino (Note autobiografiche). In seguito alla morte del fratello Ansaldo, avvenuta nel 1792, rimasto figlio unico, fu richiamato a Tropea, perché, secondo le intenzioni del padre Vincenzo, si occupasse di cose più concrete. Pasquale "Così un bel giorno apprese di essere divenuto il fidanzato di una nobile damigella della famiglia patrizia cosentina dei D'Aquino, di nome Barbara. Egli non rifiutò, anzi accettò la cosa". Le nozze furono celebrate nel 1794 in Cosenza. "Quarant'anni dopo, Pasquale disfatto dal dolore per la morte di Barbara, così si espresse nell'elogio funebre che scrisse e pubblicò: <<Io sebbene nato a Tropea e che non l'avessi giammai veduta, fui destinato ad unirmi a lei col sacro vincolo del matrimonio: Si effettuò il sacro vincolo nuziale senza averci veduti…noi ci vedemmo quando eravamo con indissolubil nodo uniti. Nel vederci ci amammo e il nostro amore fu costante" (v. F. Pugliese, Presenza di Pasquale Galluppi in Tropea, in AA. VV, Studi Galluppiani, Brenner, Cosenza, 1991, p.30). La moglie Barbara gli diede quattordici figli. A Tropea Galluppi visse nell'incanto dei paesaggi marini e collinari e di quelli interiori dei sistemi filosofici. La filosofia gli divenne più cara della stessa vita. Nel 1819 inizia la pubblicazione della sua maggiore opera, il Saggio Filosofico sulla Critica della Conoscenza in sei volumi. Salì sulla cattedra di Logica e Metafisica dell'Università di Napoli quando aveva 61 anni, rimanendovi sino alla morte avvenuta il 13 dicembre 1846. La grandezza del filosofo tropeano venne riconosciuta da tutta l'Europa dotta del tempo. L'Istituto Reale di Francia lo volle tra i suoi membri corrispondenti, preferendolo al filosofo scozzese Hamilton che da parte sua salutava nel Tropeano il rinnovatore della filosofia italiana. L'Accademia di Berlino gli erigeva un busto. Pasquale Galluppi rimase per tutta la vita in dialogo con la filosofia europea, confrontandosi criticamente con quasi tutti i filosofi che dall'antichità ai suoi tempi erano intervenuti sul problema della conoscenza. Il suo sistema di pensiero che egli chiama filosofia dell'esperienza , si costituisce nel confronto con questi filosofi. La sua attenzione maggiore è riservata alla rivoluzione kantiana. "La rivoluzione kantiana - egli scrive nella Prefazione al Saggio Filosofico sulla Critica della Conoscenza, Milano, 1846 - merita, più di quel che si crede, l'attenzione de' pensatori". Afferma tuttavia di essere giunto alla conclusione che la filosofia di Kant ed il trascendentalismo, lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza, tende radicalmente a distruggerla (Ivi). Il Tropeano dichiara di dover rispetto a "tutti gli scrittori di qualunque nazione sieno" per aver molto imparato da loro e di rispettarli anche nei loro errori, perché " tale è la debolezza dello spirito umano, che l'errore sembra quasi un preliminare per trovar la verità". Crede però di dover invitare i suoi connazionali a "non essere ciechi ammiratori degli stranieri, ma a sottomettere le loro dottrine ad un'analisi severa, ed a pensar da se stessi con quella acutezza che è loro propria" (Ivi). La filosofia secondo Galluppi va considerata primariamente quale scienza soggettiva , in quanto volta alla conoscenza dei nostri mezzi di conoscere . E' per tale motivo che egli dà inizio alle sue Lettere filosofiche occupandosi di Cartesio, il quale "alla metà del decimosettimo secolo stabili l'epoca del risorgimento della scienza". E' per lo stesso motivo che nella quinta della sue Lezioni di Logica e Metafisica definisce il filosofo francese "il padre della filosofia sperimentale dello spirito umano". Questi riconoscimenti non gli impediscono di segnalare nel filosofo francese due falli . Il primo di essi consiste nel non aver distinto la natura dell'io penso dal movimento delle nostre idee. Il secondo fallo sta nel non aver riconosciuto che "ammettendo la veracità del senso intimo siamo obbligati di ammettere, sotto certi riguardi, la veracità de' sensi esterni…"(Lezioni di Logica e Metafisica, Lez.III). L'individuazione del primo fallo riveste particolare importanza, perché alla mancata distinzione tra il soggetto pensante ed il movimento delle sue idee va fatta risalire la successiva riduzione idealistica dell'io all'attività del pensiero. Il Tropeano, come già Cartesio, muove dal soggetto conoscitore,ponendo a base del suo sistema di pensiero l'esame del nostro modo di conoscere. A differenza del filosofo francese tuttavia egli non chiude la coscienza in se stessa, perché la percezione del me è da lui considerata congiunta a quella del fuori di me. Del filosofo inglese Locke che ripone nelle sensazioni l'origine delle nostre idee, il Galluppi apprezza il fatto che "non suppone alcuna idea del me indipendente dall'esperienza" e che "la sua filosofia è dunque poggiata su l'esperienza" . Tuttavia "la filosofia dell'esperienza, che Locke cercò di stabilire, presentava alcune imperfezioni" ed esigeva "alcuni miglioramenti" (S.F., Vol II, §. 68, p.152). Il filosofo inglese, uniformandosi alla scuola cartesiana,distinse le qualità dei corpi in primarie e secondarie. Appartengono alle prime la solidità, l'estensione, la figura, il numero, il moto, il riposo che sono inseparabili dai corpi. Invece le qualità secondarie date da colori, suoni, sapori, non sono nei corpi, trovandosi in questi soltanto la capacità a produrle in noi. Locke chiama idea tutto ciò che lo spirito percepisce dentro di sé ed ogni percezione che esso ha in se stesso. Di queste percezioni non è però spiegata la rispondenza agli oggetti dell'esperienza. "Locke - osserva Galluppi - non istabilì la realtà delle percezioni de' corpi sul rapporto essenziale della percezione al suo oggetto; egli la poggiò sul principio della causalità. Ma un tal principio ci autorizza solamente ad ammettere una causa delle nostre sensazioni, ma non già a supporre che questa causa sieno i corpi" ( S.F. , Vol II, §.59, p. 153). Per spiegare la corrispondenza delle percezioni alle cose sensibili, occorreva ammettere un loro rapporto immediato con le realtà sensibili, riconoscendo che le percezioni stesse sono essenzialmente intuitive.Locke aveva sostenuto che "fra le idee che lo spirito riceve dalla esperienza, vi son quelle di causa efficiente, e di effetto. Riflettendo su queste idee lo spirito conosce con un'evidenza incontrastabile, che non vi può essere un effetto senza una causa" (S.F. vol II, §.59, p.152). La soluzione lockiana al problema della conoscenza aprì la strada allo scetticismo di Hume. Questi "adottò la dottrina lockiana su l'origine delle idee; ma non fu soddisfatto del modo con cui Locke spiegò l'origine delle idee di causa, e di effetto : egli altro non vide nella natura che avvenimenti in congiunzione, ma non mai in connessione" (S.F., Vol. II, §.59, p.152). Hume perciò, "non avendo potuto ricavare dall'esperienza, la nozione di causa efficiente, concluse che noi non abbiamo questa nozione, e definì la causa: "… Un oggetto talmente seguito da un altro oggetto, che la presenza del primo fa tuttora pensare al secondo"(Ivi). Il rapporto di causa ed effetto, privato di ogni carattere di necessità, era ridotto ad un semplice legame di successione. Kant - scrive Galluppi - "confessa, che i raziocinj di Hume su la causalità interruppero il suo sogno dommatico, e diedero la nascita alla sua filosofia critica" ( S.F. II. §.70, p. 155). Ma sulla svolta di Kant, secondo Galluppi, influì anche la scuola di Reid, la quale dai principi di Hume, dedusse che il principio interiore: non vi ha effetto senza una causa, deve essere ammesso per l'autorità di cui gode il senso comune. Il ricorso al senso comune a Kant "sembrò un mezzo indegno del filosofo e senza essere spaventato da alcuna conseguenza, tirò tutte le illazioni che credette nascere da' principij di Hume e di Reid" (S.F. , vol. I, pp.239-240).Ed allora "se nella natura non vediamo alcuna causa efficiente; se l'esperienza non può somministrarci una siffatta idea; se questa idea accompagna incessantemente la percezione di qualunque avvenimento della natura, è il nostro spirito dunque che mette una connessione fra le cose; e la relazione di causa ed effetto è solamente soggettiva, e non oggettiva"(S.F., vol. I, §.115, p.240). Il principio della causa efficiente diventa allora in Kant un principio sintetico a priori e la conoscenza si riduce ad una serie di giudizi sintetici a priori.Galluppi, da parte sua, considera essenzialmente assurda la nozione stessa di giudizio sintetico a priori. Se infatti i due termini di cui si compone il giudizio non hanno alcuna identità fra di loro, lo spirito non può riguardarli che come diversi, ma dire che sono diversi equivale a dire che l'uno non può affermarsi dell'altro , è lo stesso che dire che non vi è alcun rapporto di convenienza tra di essi: "Dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di convenienza fra due idee diverse, è affermare, che lo spirito può pronunciare una contraddizione evidente" (S.F., vol. I, §116, p.241). Per risolvere il problema della conoscenza, secondo Galluppi occorre partire dalla vera filosofia dell'esperienza, ponendo in armonia la sua parte razionale colla parte empirica. Il filosofo di Koenisberg "si pone al di là dell'esperienza, per ispiegarne la generazione: egli non osserva la conoscenza umana per farne l'analisi, ma la fa nascere e generare" (Considerazioni Filosofiche su l'Idealismo Trascendentale e sul Razionalismo Assoluto, §.20). Kant non adotta il metodo analitico: "l'analisi è il metodo di osservazione, ed il metodo critico è un metodo assolutamente a priori. L'autore del criticismo ci dà dunque una sintesi della conoscenza umana, non mica un'analisi della stessa.(Ivi, §.29).Invece ogni pensiero, ed ogni modo dello spirito, quale che siasi, è essenzialmente relativo ad un oggetto. (V. Ideal. Trasc., §.31). La verità primitiva della vera filosofia dell'esperienza è costituita dall'esistenza del me conoscitore. Questa conoscenza mi viene rivelata dalla coscienza mediante cui mi percepisco come esistente che pensa. "L'esistenza del me , e delle sue modificazioni , l'esistenza della conoscenza sono adunque delle verità primitive, immediate, indimostrabili" (S.F., vol.I, §1, p.12). L'atto che ci rivela l'esistenza del me non è un giudizio, ma una percezione immediata, cioè una intuizione. In questa percezione immediata è compresa non solo l'esistenza del me, ma anche le sue modificazioni. Il fondamento della nostra conoscenza è da ricercarsi nell'atto della coscienza, che c'istruisce di ciò che avviene ed esiste in noi. Nella percezione della propria esistenza non si dà passaggio dall'idea dell'essere alla sua realtà, perché idea ed essere sono percepiti congiuntamente. L'atto della coscienza che percepisce il me è nel me stesso. In Galluppi la coscienza comporta una presenza unitaria di essere e pensiero, l'uno dentro l'altro in un rapporto che può essere detto di circuminsessione. Per il filosofo tropeano bisogna prendere atto della verità primitiva dell'esistenza del me conoscitore , cioè del fatto che la percezione primitiva è inclusiva di pensiero ed essere, l'uno dentro l'atro. Diseredare l'idea del proprio contenuto o del proprio termine, significa ridurre il pensiero a pensiero di nulla, cioè ad un nulla di pensiero. Lo spirito non può dire Io esisto, senza servirsi dell'idea di esistenza ( v. S.F., Vol. I, §.22, p. 48). Separare l'idea dell'Io dall'esistenza dell'Io è perdere l'una e l'altro. L'idea dell'Io non è rappresentativa , ma intuitiva dell'Io. Rientrando in noi stessi, ci accorgiamo che "L'Io, ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza, ma gli sono presenti. La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo. Questa coscienza, questa percezione è dunque l'apprensione, è l'intuizione della cosa percepita" (S.F., vol I, §.16, p. 38-39). Questa dottrina galluppiana viene da lontano. La fonte è rinvenibile in S. Agostino. Galluppi cita il cap. XXVI, lib. XI del De Civitate Dei, ove legge: <<Noi siamo, e conosciamo di essere; ed amiamo di essere, e di conoscere che siamo. In queste tre verità, niuna falsità, che sembri simile al vero, ci turba. Poiché queste cose noi non le conosciamo per mezzo di alcun senso del corpo, come conosciamo per mezzo de' sensi del corpo le cose che sono al di fuori di noi… Ma mi è certissimo, che io sono, che io conosco si essere, e che amo di essere, e di conoscere, e ciò senza alcuna immaginazione illusoria di fantasmi" (Lettera XIV in Lettere Filosofiche , a cura di G. Bonafede, Palermo, 1974, p.274). Campanella poi avrebbe detto che il posse, cioè l'atto di essere, immane , sta dentro il nosse, il conoscere. Questa dottrina avrà un seguito in Rosmini che tra forma reale e forma ideale dell'essere scorge un rapporto di circuminsessione per il quale l'una giace dentro l'altra. A queste nobili ascendenze allude Giovanni Di Napoli quando usa lo stesso termine per dire che in Galluppi "la coscienza, come autopresenza dell'io, implica nella concretezza dell'esperienza, anche l'eteropresenza o la presenza dell'altro dall'io, e viceversa; cioè l'esperienza ci si presenta unitariamente come compresenza dell'io e del non-io" (G. Di Napoli, Dal Vico al Galluppi, in Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, Libreria Editrice- Napoli, 1970, pp.281-283). Francesco Acri, il filosofo calabrese docente all'Università di Bologna a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, in polemica col Fiorentino che voleva ridurre Galluppi alla sequela di Kant, rileva che per il Tropeano realtà intuita e coscienza sono un solo atto come Giano bifronte, medesimo e diverso. E che sta "qui la gran diversità tra Kant e Galluppi: per Kant l' Io come realtà non è presente nell'io che sente, concepisce, idealizza…; per Galluppi <<l'io…nella sua sussistenza trasparisce per l'io che intende, appunto perché la sensibilità è trasparenza della cosa sentita, e l'intelligibilità è questa stessa trasparenza fatta maggiore. Per Galluppi l'io reale…è anche forma, ovvero io ideale>>(F.Acri, Critica di Alcune Critiche, pp.23-24). Galluppi ha il merito di inserire l'antica dottrina della insessione delle tre forme dell'essere - memoria, intelletto e volontà per S. Agostino;il posse, il nolle e velle per Campanella - attraverso la sua filosofia dell'esperienza , nel pensiero moderno, liberando questo pensiero dallo scetticismo e dal dommatismo e facendo vedere come nel dato iniziale dell'esperienza l'idea primitiva dell'io sia essenzialmente intuitiva della realtà dell'io. Il dato conoscitivo iniziale, cioè la percezione del me modificato dal fuori di me, mediante l'analisi viene poi diviso negli elementi che lo compongono e mediante la sintesi, ricomposto nella sua unità. La sintesi è reale quando termini e rapporti esistono nella realtà. La sintesi è detta ideale oggettiva, quando i suoi termini sono reali, ma il rapporto è ideale. Quando poi sia i termini che il rapporto sono ideali, la sintesi dicesi ideale soggettiva. Per quanto riguarda il problema etico il filosofo di Tropea fa consistere la morale nell'idea del dovere, che insita nella coscienza, comanda ciò che nei casi particolari si deve fare (Cfr.Filosofia della Volontà, vol.III, Milano, 1832, pp. 152-153). L'azione morale si costituisce nell'unione dell'atto libero con l'idea del dovere. Così "al momento che si presenta al mio spirito la restituzione richiesta di un deposito a me confidato, la mia ragione diviene pratica e spiega una legge, ella mi comanada di rendere il deposito; ella alla chiesta restituzione del deposito applica la nozione del dovere, che in quel momento sorte dal suo fondo, e si manifesta"( Elementi di Filosofia, vol. 5°, Tramater, Napoli, 1836, p. 127). "Il dovere si conosce per se stesso:esso è un elemento semplice di tutte le vertità morali; esso sorge nell'intimo di noi medesimi; perciò l'ateo stesso è obbligato di riconoscerlo" (Filosofia della Volontà, cit. vol. III, p. 292). Galluppi aggiunge che la legge morale "è la legge eterna e la volontà di Dio scritta nei nostri cuori, cioè nella nostra ragione" (Filosofia della Volontà, cit.,vol. III, p.294). Il filosofo tropeano non si nasconde che in tal modo il precetto morale assume la forma di un giudizio pratico a priori, ma precisa che "Dio essendo l'autore supremo di tutta la natura, segue che i comandi della nostra ragione debbono riguardarsi come comandi di Dio" (Elementi di Filosofia, vol.5°, cit. ,p. 156). Merito non secondario del Galluppi, per noi entrati nel terzo millennio, con sopra le nostre teste la minaccia del nichilismo, è di aver rivendicato contro l'idealismo la sussistenza dell'io. Egli voleva quasi riproporre a noi gente disincantata, la gioia di esistere, perché,la verità che l'io è un essere sostanziale, è una verità consolante e feconda.
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